Corriere della Sera

La notte in cui mio padre ci salvò dai leoni E divenne un dio

- Di Wilbur Smith

Mio padre Herbert era tutto per me. Era il mio idolo e lo amavo con tutto me stesso. Poteva essere un vecchio bastardo ostinato e i suoi valori erano ancora quelli dell’epoca vittoriana, ma nella vita di ogni ragazzo c’è un eroe, e per me quell’uomo era mio padre. A volte penso che il mondo fosse troppo piccolo per contenere il suo spirito libero e ribelle, e che proprio per questo motivo lui fosse ossessiona­to dall’aviazione. Adorava unirsi «alle capriole gioiose delle nubi squarciate dal sole», come scrisse il pilota della Raf John Gillespie Magee ne Il volo, una delle mie poesie preferite. E mi chiamò come uno dei fratelli Wright, quel Wilbur che insieme a Orville costruì il primo aereo guidato da un pilota.

Non so se ho mai raggiunto le vette che si aspettava da suo figlio: lui considerav­a leggere libri una perdita di tempo e ancora più sconcertan­te scriverli. Era un uomo pratico, attivo, uno che le cose le faceva; per lui un problema era una cosa da risolvere, non su cui riflettere.

Ricordo come fosse ieri la prima volta che vidi di cosa era capace mio padre quando si trovava davanti un pericolo. Quel giorno, per me diventò un autentico eroe e si guadagnò il mio imperituro rispetto. Fu un’esperienza terrifican­te ed ebbe luogo di notte. Stavo dormendo e fui svegliato da un ruggito.

Avvolto nel sacco a pelo, aprii gli occhi. Accanto a me, mia sorella era già sveglia e fissava nervosa la luce del fuoco da campo che si intravedev­a tra i due lembi di tela dell’apertura della nostra tenda. Eravamo abituati ai normali rumori notturni del bush — l’ululato della iena, il coro delle cicale, il brontolio lontano di un leopardo che cacciava nell’oscurità — ma quello era un frastuono inimmagina­bile. Mi spostai lungo la brandina per sbirciare all’esterno.

Avevo 8 anni e mia sorella solo 6 (...). È in questo genere di situazioni che gli eroi rivelano il loro vero valore. Pur senza calzoni, con la propria virilità esposta agli occhi del mondo intero e il sangue che gli colava dal naso rotto, mio padre non indietregg­iò.

In un batter d’occhio rivolse la torcia verso il leone che stava caricando e, stringendo il fucile nell’altra mano, lo puntò come fosse una pistola lungo il vivido fascio di luce e fece fuoco.

Il proiettile bloccò l’animale fuori controllo a metà balzo: lo aveva colpito in pieno petto, trapassand­o muscoli e ossa per affondare infine nel cuore (...).

Guardai lo spazio vuoto fra lui e i leoni, e mi resi conto di quanto fossimo andati vicino a diventare le vittime di quelle belve feroci. Poi, mentre fissavo sbalordito i mangiatori di uomini stesi di fronte a me, fui assalito dalla consapevol­ezza che se io e mia sorella non eravamo diventati la loro cena lo dovevamo all’unica persona che si era messa in mezzo: mio padre, il mio eroe, il mio dio.

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Wilbur Smith è nato nell’attuale Zambia nel 1933

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