La mia vita due volte straniera divisa fra Teheran e il Monferrato
La giornalista Farian Sabahi, nata da un matrimonio misto, si racconta in «Non legare il cuore» (Solferino)
«I n persiano esiste il termine do ragheh, “due vene”». Ma qualcuno ha preferito chiamarla «mezzo sangue», o ancora: «bastarda». Sì, perché il sangue che scorre nelle vene di Farian viene da due mondi lontani e porta in sé due lingue, due culture, due credo. Do ragheh, come due fiumi che mescolano le loro acque.
È dal percorso a ritroso nella genealogia di Farian Sabahi (Alessandria, 1967) che nasce Non legare il cuore. La mia storia persiana tra due Paesi e tre religioni (Solferino), piccolo memoir che ripercorre le radici dell’autrice, non solo genealogiche ma anche — e soprattutto — «spirituali».
Alla nascita, Farian arriva come un «sogno che viene di notte» (questo il significato del suo nome): è figlia di Taher, musulmano sciita di Teheran, e di Enrica, cattolica di Alessandria, frutto di uno dei rari matrimoni misti, negli Anni 60, in Italia. Inizia così il racconto di due famiglie, fatto di tutte quelle voci che «le risuonano dentro» e che si amalgamano in una storia di popoli, fughe e sangue, parole persiane e dialetto piemontese. Di «due vene».
Papà Taher, iraniano, nasce da genitori originari dell’azerbaigian, costretti all’esilio all’inizio del secolo scorso a causa della Rivoluzione bolscevica. Emigrato in Italia nei primi anni Sessanta per studiare medicina, Taher si lascia alle spalle un Paese che sta per essere sconvolto dalla Rivoluzione islamica del 1979, attuata dall’ayatollah Khomeini. Il suo viaggio lo porta in Piemonte, dove conosce Enrica, nata e cresciuta nel Monferrato.
La bambina che mettono al mondo porta il nome di uno dei dodici Imam discendenti dal profeta Maometto (destino scritto nel secondo cognome di Farian, Seyed) eppure, a pochi giorni dalla nascita, è un’altra la sorte della sua fede: all’insaputa di tutti, la nonna italiana decide di battezzarla nella cappella dell’ospedale. Quel gesto segna per sempre il percorso della piccola che, crescendo, dovrà fare i conti con una religione che le è stata «imposta».
Infatti, mamma e papà non la indottrineranno mai alle loro diverse religioni, lasciandola libera di cercare la sua di strada: «Per anni mi sono sentita sospesa come su un ponte tibetano: ero in mezzo, non potevo starci per sempre, sentivo la necessità di conoscere che cosa ci fosse a un’estremità e all’altra».
Farian cresce in mezzo a tutto questo, da un lato la famiglia italiana e il mondo cattolico, le domeniche a messa in un’alessandria «benpensante e classista»; dall’altro i nonni paterni di Teheran, città che frequenta fin da bambina, dove invece il giorno di festa i fedeli musulmani sono chiamati alla preghiera dal muezzin.
Per tutta la vita Farian si cerca, guarda al passato, studia la sua storia. Un giorno, tutto quel cercare di dare senso a un’appartenenza, si quieta. È con l’arrivo del figlio Atesh che le cose sembrano più chiare: alla sua nascita, il dubbio di accoglierlo al mondo con il nome di un Dio diverrà una scelta istintiva.
Nomade, straniera per tutta la vita, forse Farian sente di non appartenere pienamente né a
Il destino
La nonna italiana la battezza di nascosto in ospedale: un gesto che segnerà la sua storia
un mondo, né all’altro: «Sì, sono stata battezzata e quindi cattolica (…) al tempo stesso, sono musulmana». Ma Farian preferisce definirsi hanif, «monoteista al di là delle religioni». È questa la storia di una donna, di un’anima che prova a ricomporsi, di un essere umano che cerca il proprio riflesso nel nome di un dio. Ma questa è anche un po’ la nostra storia: un solo popolo errante — da che esiste memoria — mosaico di meticci, uguali e diversi, appartenenti a un’unica, stupefacente, disuguaglianza.