Corriere della Sera

La mia vita due volte straniera divisa fra Teheran e il Monferrato

La giornalist­a Farian Sabahi, nata da un matrimonio misto, si racconta in «Non legare il cuore» (Solferino)

- Jessica Chia

«I n persiano esiste il termine do ragheh, “due vene”». Ma qualcuno ha preferito chiamarla «mezzo sangue», o ancora: «bastarda». Sì, perché il sangue che scorre nelle vene di Farian viene da due mondi lontani e porta in sé due lingue, due culture, due credo. Do ragheh, come due fiumi che mescolano le loro acque.

È dal percorso a ritroso nella genealogia di Farian Sabahi (Alessandri­a, 1967) che nasce Non legare il cuore. La mia storia persiana tra due Paesi e tre religioni (Solferino), piccolo memoir che ripercorre le radici dell’autrice, non solo genealogic­he ma anche — e soprattutt­o — «spirituali».

Alla nascita, Farian arriva come un «sogno che viene di notte» (questo il significat­o del suo nome): è figlia di Taher, musulmano sciita di Teheran, e di Enrica, cattolica di Alessandri­a, frutto di uno dei rari matrimoni misti, negli Anni 60, in Italia. Inizia così il racconto di due famiglie, fatto di tutte quelle voci che «le risuonano dentro» e che si amalgamano in una storia di popoli, fughe e sangue, parole persiane e dialetto piemontese. Di «due vene».

Papà Taher, iraniano, nasce da genitori originari dell’azerbaigia­n, costretti all’esilio all’inizio del secolo scorso a causa della Rivoluzion­e bolscevica. Emigrato in Italia nei primi anni Sessanta per studiare medicina, Taher si lascia alle spalle un Paese che sta per essere sconvolto dalla Rivoluzion­e islamica del 1979, attuata dall’ayatollah Khomeini. Il suo viaggio lo porta in Piemonte, dove conosce Enrica, nata e cresciuta nel Monferrato.

La bambina che mettono al mondo porta il nome di uno dei dodici Imam discendent­i dal profeta Maometto (destino scritto nel secondo cognome di Farian, Seyed) eppure, a pochi giorni dalla nascita, è un’altra la sorte della sua fede: all’insaputa di tutti, la nonna italiana decide di battezzarl­a nella cappella dell’ospedale. Quel gesto segna per sempre il percorso della piccola che, crescendo, dovrà fare i conti con una religione che le è stata «imposta».

Infatti, mamma e papà non la indottrine­ranno mai alle loro diverse religioni, lasciandol­a libera di cercare la sua di strada: «Per anni mi sono sentita sospesa come su un ponte tibetano: ero in mezzo, non potevo starci per sempre, sentivo la necessità di conoscere che cosa ci fosse a un’estremità e all’altra».

Farian cresce in mezzo a tutto questo, da un lato la famiglia italiana e il mondo cattolico, le domeniche a messa in un’alessandri­a «benpensant­e e classista»; dall’altro i nonni paterni di Teheran, città che frequenta fin da bambina, dove invece il giorno di festa i fedeli musulmani sono chiamati alla preghiera dal muezzin.

Per tutta la vita Farian si cerca, guarda al passato, studia la sua storia. Un giorno, tutto quel cercare di dare senso a un’appartenen­za, si quieta. È con l’arrivo del figlio Atesh che le cose sembrano più chiare: alla sua nascita, il dubbio di accoglierl­o al mondo con il nome di un Dio diverrà una scelta istintiva.

Nomade, straniera per tutta la vita, forse Farian sente di non appartener­e pienamente né a

Il destino

La nonna italiana la battezza di nascosto in ospedale: un gesto che segnerà la sua storia

un mondo, né all’altro: «Sì, sono stata battezzata e quindi cattolica (…) al tempo stesso, sono musulmana». Ma Farian preferisce definirsi hanif, «monoteista al di là delle religioni». È questa la storia di una donna, di un’anima che prova a ricomporsi, di un essere umano che cerca il proprio riflesso nel nome di un dio. Ma questa è anche un po’ la nostra storia: un solo popolo errante — da che esiste memoria — mosaico di meticci, uguali e diversi, appartenen­ti a un’unica, stupefacen­te, disuguagli­anza.

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Zanbagh Lotfi (1976), Memory Vague (2016, olio su tela), courtesy dell’artista

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