Uno sguardo neorealistico La grande consacrazione con «L’albero degli zoccoli»
Se ne va con Ermanno Olmi il grande cantore di una sfuggente armonia tra l’uomo e la Natura, inseguita con pervicacia e bella utopia fin dai tempi dei suoi primissimi documentari industriali. Perché Olmi nasce al cinema convincendo la Edisonvolta, dove lavorava, a creare un «servizio cinematografico»: sono i primi anni Cinquanta, la società milanese è uno dei simboli di una modernizzazione del Paese che sta risollevandosi dopo la guerra, e i documentari che Olmi scrive e dirige (La pattuglia del passo San Giacomo, 1954; La diga del ghiacciaio, 1955; Manon finestra 2, 1956, quest’ultimo su un testo di Pier Paolo Pasolini) sono entusiasti elogi del lavoro e della fatica per trasformare in energia la forza della Natura, o per documentare l’impegno educativo della società rispetto alle giovani generazioni (Michelino 1° B, 1956, scritto con Goffredo Parise).
Sono corti e mediometraggi in cui Olmi mette a punto uno stile fatto di sguardi sul mondo, di ammirazione per il lavoro dell’uomo, di «neorealistico» rispetto per le luci e i suoni (praticamente non esistono colonne sonore aggiunte) e che guidano il regista nel costruirsi un’idea di cinema che lo àncora fortemente alla concretezza del reale. Tanto che il suo primo lungometraggio (Il tempo si è fermato, 1959) nasce come documentario sul lavoro di vigilanza delle dighe e si trasforma in un’emozionante parabola sul rapporto uomo-natura grazie ai due protagonisti, uno studente chiamato a una sostituzione stagionale e l’anziano compagno di lavoro.
Nei film successivi — Il Posto, 1961; I fidanzati, 1963 — Olmi accentua gli spunti personali (assurdi e grotteschi nel primo, mentali e antinarrativi nel secondo) ma resta fedele a un impianto di base di tipo neorealistico, capace di leggere alcune delle contraddizioni antropologiche dell’italia del Boom, dall’inurbamento con le sue aspirazioni piccolo-borghesi alla perdita dell’innocenza nel confronto tra mentalità e stili di vita diversi.
Olmi resta comunque sostanzialmente estraneo al «mondo del cinema» romanocentrico, scegliendo soggetti insoliti (E venne un uomo, 1965, su Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII; Un certo giorno, 1969, sul modo di «star dentro il proprio destino» in toni mesti e meditativi; La circostanza, 1974, che racconta con pessimismo dolente e impietoso la crisi di una famiglia) oppure sfruttando al meglio le commissioni Rai (Giovani, 1967; I recuperanti e Durante l’estate, 1970; Le radici della libertà, 1972, scritto con Corrado Stajano).
La consacrazione internazionale arriva nel 1978, con la Palma d’oro per L’albero degli zoccoli, appassionata e commovente ricostruzione della vita contadina nelle campagne della bergamasca alla fine dell’ottocento, illuminato da un senso del sacro che, rossellinianamente, cerca i propri valori nella vita quotidiana, qui il lavoro dei campi, la memoria della terra, le gioie (e gli stenti) della vita rurale. Partecipe omaggio a un mondo in via di estinzione raccontato con la poesia dei gesti quotidiani e un non celato rimpianto per qualità più semplici ma più vere, il film è pensato senza preoccuparsi del «destino commerciale» (lungo quasi tre ore, è sottotitolato perché parlato in bergamasco) e forse proprio per questo fu applauditissimo e accolto da un successo straordinario.
Olmi non troverà più un tale stato di grazia creativa, anche per colpa di una malattia che lo terrà a lungo lontano dal lavoro, ma non perderà mai la voglia di percorrere strade inedite e di raccontare la fatica degli umili e dei meno fortunati nell’inseguire un sogno di vita che sappia coniugare sensibilità religiosa («sono un aspirante cristiano» dice di sé e l’ha dimostrato con film fuori dalle regole, come Camminacammina, 1983, sul mito dei Re Magi) con l’utopia di un’armonia col mondo che spesso la morte impedisce di realizzare, ma che però non mette mai davvero in discussione (La leggenda del santo bevitore, 1988, premiato con il Leone d’oro, e Il mestiere delle armi, 2001, terminano entrambi con una morte materiale che si trasforma in vittoria spirituale).
Così, nell’ultima parte della sua carriera, dove è spesso tornato al documentario (Rupi del vino e Terramadre, 2009, sul recupero di un rapporto meno invasivo con l’agricoltura; Vedete, sono uno di voi, 2017, sull’insegnamento del cardinale Carlo Maria Martini), ha scelto storie e film che gli permettessero di sottolineare con forza le proprie idee, esaltando un «cinema di prosa» capace di andare direttamente al cuore dei valori che più gli stavano a cuore: il significato del perdono (Cantando dietro i paraventi, 2003), la spoliazione dalle certezze intellettuali (Centochiodi, 2007), il rischio della carità (Il villaggio di cartone, 2011) e lo scandalo della guerra (Torneranno i prati, 2014), ultimo accorato appello all’uomo perché non dimentichi l’assurdità della morte e della follia che l’ha generata, dove l’anonimo destino dei singoli diventa prova dell’irragionevolezza all’origine di ogni conflitto.
Armonia È stato il grande interprete di una sfuggente armonia tra l’uomo e la Natura