Avati, trent’anni di amicizia: finisce la nostra generazione
«Ermanno era un leone, quando ci sentivamo era lui a consolare me»
«Siamo amici da più di trent’anni, condividiamo gli stessi valori, la stessa fede». Parla al presente Pupi Avati, la morte non separa chi si vuole bene. «Ed Ermanno per me fa parte degli affetti più cari, una piccola cerchia che va sempre più erodendosi. Pochi giorni fa è scomparso Vittorio Taviani, adesso lui... Quella fascia generazionale che ha fatto grande il cinema italiano si assottiglia sempre più. E il dolore è anche più grande perché Olmi se ne va così vivo, pieno di passione, di progetti...».
Ma anche così sofferente, malato da molti anni.
«È vero, ma quella malattia crudele che gli martoriava il corpo, paradossalmente lo ha spinto a aprire ancor più la mente e il cuore. È un leone, Ermanno. Quando ci sentivamo era lui a consolare me. Ha trasformato la sofferenza in risorsa, ha tolto di mezzo la rassegnazione, ha continuato a lavorare e ad amare. Che poi è tutto quello che conta».
«Lavorare, lavorare, lavorare», l’imperativo di salvezza di Cechov, autore prediletto di Olmi.
«Per noi artisti una necessità vitale. Anni fa ero finito in ospedale per un infarto. Al Gemelli, stesso corridoio dove c’era pure Monicelli, ricoverato con 18 fratture dopo uno spaventoso incidente. Tutti e due attanagliati dalla medesima paura, non poter tornare a lavorare. Un’angoscia che credo abbia contribuito alla guarigione, “dovevamo” farcela. Una malattia più grande, quella del cinema, ci richiamava alla vita».
Cosa pensa del cinema di Olmi?
«Come quello di pochissimi grandi, Pasolini, Fellini, ha un tratto inconfondibile. Bastano un paio di inquadrature per capire che sei davanti a un suo film. Non tutti i suoi film mi sono piaciuti ma alcuni sono stati definitivi. L’albero degli zoccoli, dove ho ritrovato l’anima di una cultura contadina che mi appartiene. Il posto, un’italia di transizione vista dagli occhi di un giovane timido, inadeguato, che apprezza la poesia delle piccole cose, quelle che gli altri non vedono. Mi ha segnato così tanto che una ventina d’anni dopo con Impiegati sono tornato sullo stesso tema ma con il cinismo dettato dai nuovi tempi. L’italia innocente non c’era più, si era passati all’era degli yuppies».
Quando vi siete conosciuti?
«Qualche anno dopo. Avevo appena finito Storia di ragazzi e ragazze e Tullio Kezich, il grande critico del Corriere, mi disse: dobbiamo farlo vedere a Ermanno. Ed Ermanno arrivò, con moglie e figli al seguito. Mi ha voluto bene subito, come si vuol bene a qualcuno che ti dà qualcosa che ti fa star bene. L’amicizia è nata immediata e profonda e così è continuata, ciascuno traghettando il suo mondo all’altro».
Quale tratto del suo carattere le piaceva di più?
«La generosità. Merce rara tra la gente del cinema. Olmi anche in questo è un caso a parte, la sua Bottega a Bassano è stata una fucina di talenti, da lì sono usciti alcuni tra i migliori nuovi registi italiani, da Campiotti a Zaccaro a Diritti. Ha trasferito il suo talento a piene mani, senza voler influenzare. Maestro vero, non per titolo onorifico».
Infine, Olmi uomo di fede. Un tema vicino anche a lei, ne parla in un libro uscito da poco, «Il signor Diavolo».
«Ci scherzo su ricordando tante superstizioni che impastano il nostro cattolicesimo... Ermanno è un credente vero, ha un senso del sacro che non ho ritrovato in nessun altro collega. Fellini aveva la curiosità per l’al di là, ma non so se ci credesse. Amava il mistero, era cupo e notturno. Il contrario di Ermanno, solare e certo di un Dio che si riflette e si rivela nel creato. Un cristiano più che un cattolico».
Nel film sul cardinale Martini, Olmi cita una sua frase, «La morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio».
«Rispondo con un’immagine del film precedente, Torneranno i prati. Nell’orrore insensato della guerra, un soldato canta sotto le stelle. Una canzone napoletana che parla della bellezza della montagna, della quiete della notte. Un attimo di stupore, di dolcezza, capace di vincere paura e disperazione. Sarebbe bello che quella canzone fosse cantata al congedo di Ermanno. Sono certo che la sentirà».
L’intervista L’autore: «Faceva parte certamente degli affetti più cari»