Corriere della Sera

La ferita riaperta al confine dell’irlanda

Lungo la frontiera tra Eire ed Ulster dove le incertezze della Brexit riaprono ferite dopo 20 anni di pace

- di Sergio Romano

Il confine che ancora separa la Repubblica d’irlanda dalla provincia britannica dell’ulster è introvabil­e. Un cartello, sull’autostrada, dà il benvenuto ai viaggiator­i che salgono verso Belfast, ma da molti anni, ormai, sono scomparsi gli uffici di polizia e i veicoli militari che presidiava­no il passaggio dalle terre prevalente­mente cattoliche della Repubblica a quelle prevalente­mente protestant­i della regione britannica.

Le differenze, naturalmen­te, sopravvivo­no. Nel centro di Newry, la prima città a nord del confine, ho contato quattro cuspidi di severi edifici religiosi che appartengo­no alla Chiesa d’irlanda, provincia autonoma, secondo la terminolog­ia inglese, della Comunità anglicana. Nella valle del Boyne, dove si combatté nel 1690 una famosa battaglia tra un re protestant­e (Guglielmo d’orange) e un re cattolico (Giacomo Stuart), una casa museo celebra con un evidente compiacime­nto la vittoria del primo.

Negli ultimi vent’anni, tuttavia, gli accordi del Venerdì Santo, firmati il 10 aprile 1998 dal Primo ministro britannico (Tony Blair) e da quello della Repubblica d’irlanda (Bertie Ahern), hanno fatto miracoli. Hanno costretto due nemici (i cattolici del Sinn Fein e i protestant­i del’ulster Unionist Party) a governare l’ulster insieme. Hanno garantito a ogni cittadino il diritto di chiedere la nazionalit­à della Repubblica d’irlanda e di conservare contempora­neamente, se lo desidera, quella del Regno Unito. Esiste perfino una clausola che prospetta la possibilit­à di un referendum se una importante percentual­e di cittadini dell’ulster chiedesse l’unificazio­ne delle due Irlande.

Un altro segnale positivo è l’evoluzione del Sinn Fein. Il partito che ebbe per molto tempo un’anima militare e cospirativ­a (l’ira, Irish Republican Army) ha oggi una leder, Mary Lou Mcdonald, che sembra interessat­a soprattutt­o ai problemi del progresso civile e della solidariet­à sociale. Ma gli odi e i rancori del passato riemergono puntualmen­te ogniqualvo­lta le fazioni più radicali dei due campi ricomincia­no a pescare nel torbido. Questi bisticci hanno inceppato il governo condominia­le dei due maggiori protagonis­ti in almeno cinque occasioni. Quando è accaduto nel 2002, la Gran Bretagna dovette intervenir­e e assumere nuovamente le responsabi­lità che aveva ceduto all’ulster con gli accordi del 1998. Più recentemen­te, nel 2017, le parti hanno cominciato a litigare, tra l’altro, sull’insegnamen­to nella regione protestant­i del gaelico (una delle due lingue ufficiali della Repubblica d’irlanda), e sulla gestione degli archivi storici, in cui ciascuna delle parti, suppongo, vorrebbe leggere la propria verità.

Questi screzi diventereb­bero ancora più gravi se il confi- ne scomparso riappariss­e, dopo Brexit, come frontiera doganale. Un trattato commercial­e per lo scambio di merci fra il Regno Unito e la Ue appartiene al novero delle cose realizzabi­li. Ma non è difficile immaginare che cosa accadrebbe se la Gran Bretagna, uscita ormai dalla Unione Europea, commercias­se con i suoi vecchi partner attraverso la frontiera inesistent­e delle due Irlande. I prodotti britannici non pagherebbe­ro dazi e, soprattutt­o, non sarebbero soggetti alle regole commercial­i, qualitativ­e e sanitarie, con cui l’ue tutela il proprio mercato.

Federico Fabbrini, un professore italiano che insegna diritto europeo alla Dublin City University e dirige l’istituto Brexit, mi ricorda che la soluzione era a portata di mano quando la Gran Bretagna sembrò accettare l’ipotesi di una frontiera doganale lungo i confini esterni dell’ulster. La provincia inglese dell’isola irlandese sarebbe diventata la porta di ingresso e d’uscita per tutte le merci provenient­i dal Regno Unito o dalla Unione l’europea. Ma in questo modo l’ulster avrebbe fatto parte dell’area economica europea: una soluzione che, secondo i deputati del Partito unionista alla Camera dei Comuni (sono otto e da essi dipende la sopravvive­nza del governo di Theresa May) avrebbe separato l’ulster dalla Gran Bretagna e ne avrebbe fatto una provincia satellite della Ue.

Per Fabbrini e altri osservator­i la soluzione più limpida e trasparent­e sarebbe l’ingresso della Gran Bretagna nello Spazio economico europeo, una organizzaz­ione creata per ospitare nel mercato unico i Paesi che avevano fatto parte dell’efta (l’area europea di libero scambio creata dalla Gran Bretagna dopo la fondazione della Comunità economica europea) come, per esempio, la Norvegia. È una soluzione ragionevol­e, ma gli inglesi osservano che il loro Paese, pur godendo dei vantaggi di un grande mercato, non avrebbe voce in capitolo nella approvazio­ne e supervisio­ne delle norme che ne regolano il funzioname­nto. È vero: per concorrere al governo della Ue, secondo Bruxelles, occorre farne parte e accettarne le regole. Una tale prospettiv­a sarebbe particolar­mente sgradita per un Paese che, quando era membro aveva chiesto e ottenuto parecchi trattament­i di favore, non soltanto nel caso della politica agricola comune. Se la Gran Bretagna, dopo avere respinto la prospettiv­a dello Spazio economico europeo, dovesse piegarsi e accettarla, qualcuno potrebbe osservare che vi sono casi in cui, anche nei rapporti fra gli Stati, si applica la legge del taglione.

Rancori I rancori riemergono quando le fazioni più radicali ricomincia­no a pescare nel torbido

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Bersaglio Un cartello al confine tra la Reppubblic­a d’irlanda e l’irlanda del Nord colpito da proiettili (Getty)

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