Corriere della Sera

La lotta degli amici «Ma ora temiamo che i famigliari siano scagionati»

- di Cesare Giuzzi

MILANO Zhesan ha 27 anni e fa l’operaio. Quattro anni fa s’è trasferito a Brescia da Islamabad, la capitale. Non sorride, rigira tra le mani il cellulare mentre mostra le immagini della television­e pakistana dove si vedono Mustafa Ghulam e il figlio Adnan scortati via dalla polizia. Il padre di Sana, in tunica bianca, si copre il viso. «Vedi, voi pensate che adesso sia tutto finito, risolto. Ma non è così. Aspettiamo sei o sette mesi, poi vedremo se sarà fatta giustizia. Io ancora non ci credo. Mi sembra un miracolo. Bisogna aspettare il processo, perché non funziona come in Italia. Potrebbero ancora essere scarcerati, potrebbero cavarsela».

La sfiducia di Zhesan verso la polizia pakistana è una nota ricorrente. Non bastano neanche le notizie che arrivano dal Punjab e che confermano che padre e figlio sono ancora in cella, a tranquilli­zzarlo. «C’è molta corruzione nel nostro Paese. E poi la nostra legge prevede la possibilit­à che la madre perdoni gli assassini e vedrete che succederà. C’è troppa arretratez­za». Quello dell’amico «bresciano» di Sana non è uno sfogo contro la religione e la cultura islamica. «No, purtroppo certi delitti nel nostro Paese vengono accettati, c’è comprensio­ne. Come se fosse un diritto dei genitori uccidere la propria figlia perché non vuole sposare l’uomo che le è stato scelto». Ma c’è di più. «Sul web, sui social, ci sono state campagne per chiedere giustizia per Sana. Ma la comunità bresciana, appena la notizia della sua scomparsa era stata diffusa, ha subito difeso il padre, negando che Sana potesse essere stata uccisa. Si parla poco di questo delitto, siamo una comunità chiusa. Troppo chiusa». Eppure ieri Jabran Fazal, presidente dell’associazio­ne culturale Pak di Brescia ha annunciato l’organizzaz­ione di «una grande manifestaz­ione di solidariet­à e ricordo per Sana».

Le autorità pakistane, per loro stessa ammissione, hanno indagato sulla morte della ragazza solo dopo la pubblicazi­one sui media della denuncia degli amici. Senza la loro tenacia il corpo della 25enne non sarebbe mai stato riesumato. «Ma noi eravamo certi. Non avevamo prove, ma eravamo sicuri — racconta Jamil, 26 anni —. Qualcuno dalla famiglia di Sana, forse una sorella, ha avvisato altre persone. Ha raccontato che era stata uccisa, sapeva che le autorità altrimenti non avrebbero indagato. Noi eravamo l’unica speranza».

Nelle scorse settimane gli investigat­ori bresciani avevano rintraccia­to il fidanzato della vittima, un ragazzo italo-pakistano. Lui ha raccontato di essere un semplice amico, nulla più. Ma i conoscenti dicono che la loro relazione durasse da almeno quattro anni. «Lui è stato in Pakistan pochi giorni prima che lei venisse uccisa. Era sceso per sposarla, anche se la famiglia non voleva», racconta Zhesan. «Imran, uno dei fratelli di Sana che vive in Germania, a Francofort­e, adesso è a Brescia. Perché è qui? Sicurament­e vuole capire chi è stato a far uscire la notizia sui giornali. Chi ha parlato». Gli amici di Sana sono preoccupat­i: «Abbiamo paura, non ci metteranno molto a capire che siamo stati noi a raccontare tutto». Zhesan abbassa lo sguardo sul telefono: «Tra quattro mesi dovrò tornare in Pakistan, non sono tranquillo. È gente che ha ucciso la propria figlia. Neanche le bestie lo fanno».

In Pakistan c’è la possibilit­à che la madre perdoni gli assassini e vedrete che questo succederà

Abbiamo paura, i parenti ci metteranno poco a capire che siamo stati noi a raccontare tutto

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