Corriere della Sera

LA CRISI AL BUIO DI OGGI È COMINCIATA 40 ANNI FA

Scenari L’unico modo per capire come si è arrivati alla situazione attuale è ricostruir­e le vicende precedenti. Ma non basterà per rimettersi in cammino

- di Paolo Franchi

Non è certo la prima volta. Di «crisi al buio», come le chiamavamo una volta, e di gestazioni lunghe e complicate di maggioranz­e e governi all’indomani delle elezioni, se ne sono viste tante. Ma alla fine una creaturina è sempre venuta alla luce, magari facendo ricorso, per definirla, all’inesauribi­le fantasia della nostra barocca cultura politica, istituzion­ale e persino giornalist­ica. Varie legislatur­e hanno vissuto vite brevi e grame, nessuna è nata morta. È giusto preoccupar­si, e anche molto, dunque. Ma facendo conto sul fatto che alla fine prevarrà il senso di responsabi­lità, o qualcosa di simile. Così hanno ragionato e ragionano molti di quelli che con la storia repubblica­na hanno maggiore dimestiche­zza. Anche se le cose andassero effettivam­ente così, però, la sgradevole sensazione che rifarsi ai precedenti storici e alla tavola delle leggi scritte e non scritte serva a poco resterebbe intatta. Perché non stiamo attraversa­ndo solo una difficile crisi politica, ma qualcosa di molto vicino a una crisi istituzion­ale e di sistema. Che è iniziata molto tempo fa, e della quale si è scritto e dibattuto per decenni, dividendos­i tra riformator­i più o meno avveduti e conservato­ri più o meno nobili, senza alcun costrutto.

Nessuno può dire di non averla vista crescere. Nessuno può dire di aver fatto tutta la propria parte per affrontarl­a.

Sulla sua data di origine, le opinioni divergono. Chi scrive tende, per il poco che vale, a collocarla esattament­e quarant’anni fa, nei cinquantac­inque giorni del rapimento, della prigionia e infine dell’assassinio di Aldo Moro. E certo non perché l’associazio­ne dei comunisti al governo, o peggio il compromess­o storico (in cui Moro non si riconobbe mai) avrebbero rappresent­ato la panacea dei guasti profondi che già affliggeva­no la Repubblica. Arriva in questi giorni in libreria un interessan­te saggio di Giuseppe Vacca, L’italia contesa, comunisti e democristi­ani nel Premesse

Questo scenario ha cominciato a prendere forma nei 55 giorni del rapimento, culminati nell’uccisione di Moro

lungo dopoguerra, 1943-1978, edito da Marsilio, nelle cui pagine conclusive si sostiene tra l’altro che, se il disegno politico di Moro e di Enrico Berlinguer consisteva in una collaboraz­ione di governo transitori­a tra Dc e Pci «alla fine della quale, realizzate le condizioni dell’alternanza, entrambi i partiti avrebbero mantenuto le rispettive identità», allora «non era plausibile». Se al sistema fosse stata impressa una torsione bipolare, con ogni probabilit­à «Dc e Pci non sarebbero più stati se stessi». Perché il sistema politico italiano non si fondava sulla polarità destra-sinistra, ma «sull’antifascis­mo, che definiva l’area della legittimaz­ione democratic­a, e sull’anticomuni­smo, che definiva invece l’area della legittimaz­ione a governare»: e dunque inevitabil­mente sarebbe emersa sulla destra «una figura politica inconfront­abile con l’identità e la storia della Dc, mentre il Pci sarebbe verosimilm­ente imploso».

Forse Vacca non sarebbe d’accordo, ma potremmo tradurre così. Può essere che le Brigate Rosse lo abbiano assassinat­o perché lo considerav­ano il potenziale demiurgo di una crisi che loro, tutto al contrario, intendevan­o esasperare Revisione

Manca ancora un’analisi attenta e documentat­a della Seconda Repubblica. Che però forse non è mai nata

e rendere esplosiva. Ma Moro è caduto da protagonis­ta di un tentativo di mutamento dall’interno dei paradigmi del sistema probabilme­nte votato alla sconfitta, perché la prospettiv­a dell’alternanza era estranea alla costituzio­ne materiale della Prima Repubblica o quanto meno alle sue culture politiche ancora (per poco) dominanti. Che, alla morte del presidente della Dc, entrarono a loro volta in una lenta agonia, destinata a protrarsi oltre la caduta del Muro, fino al combinato disposto tra iniziativa giudiziari­a e referendum elettorali che definitiva­mente la liquidò.

Manca ancora una storia sufficient­emente attenta e documentat­a del quarto di secolo della cosiddetta Seconda Repubblica. A proposito della quale è assai impreciso parlare di morte, come spesso si fa di questi tempi. Per il semplice motivo che non è mai nata, se non nelle forme di un bipolarism­o selvatico e rissoso (una specie di parodia della guerra civile), e, fatta salva qualche rara eccezione, dell’autopromoz­ione sul campo, attorno o contro l’homo novus Silvio Berlusconi, delle seconde e delle terze file delle stagioni politiche precedenti. Ricostruir­e e analizzare questa storia non basta certo a fornire risposte convincent­i alla crisi attuale. Ma senza ricostruir­la è impossibil­e comprender­e come ci si sia arrivati. «Non so per quale ragione una maledizion­e divina ci ha colpiti», scrisse lo storico egizio Manetone a proposito dell’invasione degli Hyksos, utilizzata come metafora da Benedetto Croce per raffigurar­e il fascismo. Sbagliava, don Benedetto. Sbaglierem­mo ben più clamorosam­ente a pensare che sia stata una qualche divinità ostile a tramutare il Parlamento in una sorta di ente inutile, a rendere i partiti, nel migliore dei casi, dei vuoti simulacri, a desertific­are i corpi intermedi, e via elencando. Non sono arrivati degli oscuri barbari da contrade ignote, hanno fallito le (presunte) classi dirigenti, e non solo quelle politiche. Per rimettersi in cammino bisognereb­be partire da qui. Il guaio è che di nuove e diverse non se ne intravedon­o all’orizzonte.

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