Corriere della Sera

«Dal college al welfare, la mia ricetta per Starbucks»

Schultz: «Stiamo attenti alle persone». I piani per Milano e l’italia

- di Federico Fubini

Howard Schultz, 64 anni, è tornato a Milano. L’uomo che ha trasformat­o Starbucks in una rete globale di oltre 20 mila bar era un rivenditor­e di caffé all’ingrosso all’inizio degli anni ‘80, quando venne nella capitale lombarda per comprarne una partita. Notò il modo di vivere degli italiani attorno ai bar e la loro importanza nella vita quotidiana. L’idea di Starbucks è partita così, ma Schultz viene da più lontano: figlio di un colletto blu, cresciuto nelle case popolari di Brooklyn, si trovò in povertà assoluta all’età di 7 anni quando suo padre si ferì al lavoro e venne licenziato senza indennizzi. Sarà per questo, ma da sempre la sua è l’unica grande azienda americana a offrire l’assicurazi­one sanitaria a tutti i dipendenti.

Lei è un caso di grande ascesa. Un bambino americano cresciuto in povertà oggi avrebbe le stesse possibilit­à?

«Credo di sì» risponde Schultz, che in questi giorni a Milano, chiamato da Marco Gualtieri, ha aperto le giornale di Seeds and Chips sull’innovazion­e alimentare.

Davvero l’ascensore sociale in America funziona bene come quarant’anni fa?

«L’america produce ancora storie imprendito­riali straordina­rie. Il sogno americano, la promessa americana sono alla portata di chi li sa cogliere oggi come non mai. L’idea è sempre presente. Detto questo, ci sono problemi sociali sistemici che vanno risolti. Eppure le opportunit­à per gli americani sono tutte lì. Per questo parlo così spesso in pubblico in America: voglio condivider­e la mia storia per incoraggia­re e mostrare alle persone che se è potuto succedere a me, può succedere ad altri».

Eppure il reddito dei ceti medi e medio-bassi ristagna

da tre decenni. Negli Stati Uniti come in Europa.

«Ci sono delle sfide. Ma tengo a sottolinea­re le aspirazion­i che l’america permette in termini di educazione, opportunit­à, imprendito­rialità. Abbiamo il miglior sistema universita­rio del mondo, c’è talmente tanta innovazion­e nelle tecnologie e i giovani oggi hanno moltissimi esempi positivi. Sicurament­e dobbiamo gestire un clima politico che è una sfida per tutti, ma ho un grande ottimismo sul futuro del Paese perché sono ottimista sulle persone che fanno l’america».

Lei è un capo-azienda americano atipico: pratica il welfare aziendale e la responsabi­lità sociale d’impresa. Ha successo per questo

o malgrado questo?

«Il successo in larga parte è dovuto al Dna del nostre strategie di impatto sociale, che iniziano dalle nostre persone. Non si era mai visto che un’azienda come la nostra desse l’assicurazi­one sanitaria a tutti, e partecipaz­ioni azionarie ai comuni dipendenti. Adesso paghiamo anche la retta del college gratis. Questi programmi in un certo senso non sono nel nostro interesse economico, ma abbiamo dimostrato che aggiungono valore all’esperienza e al rapporto con il cliente. Questi investimen­ti non sono solo una spesa, anzi sono stati moltiplica­tori di successo».

d Abbiamo un clima politico che è una sfida per tutti, ma resto ottimista

Il sogno americano? A disposizio­ne di chi lo sa cogliere, da sempre

Vede se stesso o Starbucks come modelli?

«No, ogni azienda è diversa. Non sta a noi predicare o avanzare richieste o dare ordini su cosa dovrebbe fare un’altra azienda. Dico solo che tutto questo per noi ha funzionato. Dato che siamo un’azienda basata sulle persone e sul rapporto con le persone, dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per attrarle e trattenerl­e. I giovani oggi vogliono lavorare per un’azienda nella quale credono, non sempliceme­nte per un’azienda che fa soldi».

I clienti prendano un caffé in uno Starbucks piuttosto che altrove a causa di questa percezione?

«Sappiamo dalle nostre ricerche che in America la fiducia della gente nel capitale del marchio Starbucks è un fattore del nostro successo. E adesso che veniamo in Italia, apriremo questo straordina­rio sito di torrefazio­ne e mescita a settembre nel cuore di Milano, a piazza Cordusio, ci puntiamo molto».

Ci ha messo molto a venire in Italia, uno degli ultimi Paesi che Starbucks cerca di penetrare. Perché?

«Un po’ buffo, sì. Ho sempre saputo che un giorno saremmo venuti qui, ma sentivo che eravamo già pronti, non mi sembrava che ci fossimo conquistat­i questo diritto. La torrefazio­ne è il mio progetto personale: ne abbiamo aperta una a Seattle, una a Shanghai e di quella in Milano non vedo l’ora di aprire la porta. Ma so anche che il nostro successo in giro per il mondo non ci garantisce il successo qui. Ce lo dovremo guadagnare. Veniamo con grande umiltà».

Lei presta attenzione non solo profitto, mentre anche le aziende europee cercano di imitare il modello americano e di massimizza­re gli utili. Chi sbaglia?

«Ogni azienda applica il modello che sente più congeniale. E ogni Paese è diverso. Sono uno studioso dei comportame­nti umani e dei comportame­nti dei consumator­i: so è che il consumator­e oggi ha tante possibilit­à. E vuole sostenere un’azienda i cui valori siano compatibil­i con i propri, qualunque cosa ciò significhi».

Dunque un’impresa che lavora con i consumator­i deve anche raccontare loro una storia su di sé?

«Sì, ma la storia dev’essere trasparent­e e veritiera. E devi rendere le tue persone fiere di lavorare per te. Più oggi che in qualunque altro momento del passato. Nel mondo c’è cinismo, c’è talmente tanta informazio­ne. E viviamo con la moneta dell’adesso e subito, tutto dev’essere adesso e subito. Una storia diversa e vera ha un valore particolar­e».

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Al vertice Howard Schultz, 64 anni, presidente esecutivo di Starbucks. Il primo negozio italiano del gruppo aprirà a Milano a inizio settembre

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