Le mie storie? Le create voi
L’intervista Esce per La nave di Teseo «La scomparsa di Stephanie Mailer» di Joël Dicker, che oggi è a Milano e sabato a Torino L’autore del «Caso Harry Quebert» torna in libreria: «Scrivo per condividere»
Ceci n’est pas un polar. Questo non è un giallo, stabilisce puntualmente Joël Dicker con la stessa disinvoltura con cui René Magritte, altro maestro dell’illusione, smentiva — a ragion veduta — che la sua pipa fosse davvero una pipa. Per il suo quarto romanzo, la linea del giovane scrittore svizzero da sei milioni di copie con La verità sul caso Harry Quebert (tradotto in 33 lingue e gratificato nel 2012 del Grand Prix du roman de l’académie française e del Premio Goncourt des lycéens) non cambia: La scomparsa di Stephanie Mailer (La nave di Teseo) non è un poliziesco. È altro. Un altro prevedibile trionfo. Di sicuro un genere quasi a sé. Una «storia alla Dicker», insomma. Con colpi di scena, intrecci inattesi, frequenti flashback per il detective sulla soglia della pensione, Jesse Rosenberg, e per il suo collega Derek Scott, indotti a riaprire un vecchio caso, un triplice omicidio, dalla rivelazione di una giornalista, Stephanie Mailer, che subito dopo svanisce nel nulla. Il colpevole arrestato vent’anni prima non è il vero colpevole, li ha convinti la ragazza. Trovare l’assassino e scoprire che fine ha fatto Stephanie diventano una questione d’onore per la coppia di inquirenti, e per chiunque si avventuri nella prima delle 700 pagine.
Ma come, ci sono investigatori, sparizioni, delitti, e questo non è un thriller?
«Non sono io a dirlo — tiene duro, da Ginevra, lo scrittore — ma i lettori. Il polar risponde a codici, regole precise e i lettori si aspettano di trovare quei codici. In un giallo tutta la trama ruota attorno a un caso criminale e tutti i personaggi sono direttamente o indirettamente coinvolti. Ne La scomparsa di Stephanie Mailer ci sono più di trenta personaggi. Alcuni sono poliziotti, ma altri non hanno alcuna relazione diretta con l’omicidio. Un vero lettore di polizieschi non trova nell’intreccio tutti gli ingredienti di un giallo».
La vicenda è ambientata a Orphea, piccola e immaginaria località balneare negli Hamptons, nello Stato di New York. E anche Harry Quebert si muoveva ad Aurora,
nel lontano New Hampshire. Il lago di Ginevra proprio non la ispira?
«Per i miei primissimi romanzi avevo scelto ambientazioni più vicine, in Svizzera e in Europa. Ma rischiavo di cadere nell’autofiction. Non volevo parlare di me stesso e di quanto mi circonda. Volevo scrivere un ampio romanzo lontano da me. Ambientarlo negli Stati Uniti mi è servito a prendere le distanze da me stesso. Cercavo un territorio che mi lasciasse totale libertà».
Però non una metropoli.
«Già. Ho bisogno di qualche barriera per non perdermi: una piccola città si presta meglio, un ambiente chiuso mi per- mette di muovermi in una dimensione maggiormente controllabile e di tratteggiarne un quadro più chiaro».
Che accoglienza si aspetta in Italia?
«Sono molto curioso, in Francia il libro sta andando bene, ma ogni volta il successo mi sorprende e ha un gusto nuovo. Sono felice ed emozionato di venire a Torino a presentarlo».
È in vista di una trasposizione cinematografica che i suoi romanzi abbondano di dialoghi, azione, flashback?
«Mi dicono spesso che i miei romanzi sono molto cinematografici e infatti il regista Jean-jacques Annaud ha ricavato dal Caso Harry Quebert una serie televisiva, con Patrick Dempsey, che uscirà quest’anno. Ma in realtà io non descrivo mai i miei personaggi. Non dico se sono biondi o bruni, alti o bassi, se portano gli occhiali. E
d
Nel nuovo romanzo il personaggio di Marcus Goldman non c’è, si è preso una vacanza Non volevo cedere alla tentazione di andare sul sicuro, di adagiarmi, volevo cambiare