Corriere della Sera

Shakespear­e parla in sardo La tragedia è senza pathos

- di Franco Cordelli

Alessandro Serra è il nuovo fenomeno del teatro italiano: dopo Massini drammaturg­o, abbiamo Serra regista. All’argentina di Roma colpiva la quantità di pubblico che si apprestava a consumare il suo Macbettu: pubblico insolito, non tanto per i giovani, che in certe occasioni non mancano, quanto la gente di un mondo dello spettacolo mai troppo curioso di sapere cosa fanno gli altri. Alla fine, come era prevedibil­e, gli applausi sono stati d’un insolito fervore.

Perché tanto entusiasmo? Perché sapevo che sarebbe andata così? Le risposte possono essere più d’una, mi limito a constatare un accadiment­o consueto: si verificano condizioni in base alle quali un’opinione dissenzien­te, ove ci fosse, sarebbe dettata da oscuri motivi. Avevo scritto in settembre che un Macbeth in sardo non vedevo l’ora di non vederlo. Su questa frase, che divenne il titolo dell’articolo, si è speculato, il Teatro di Sardegna ha risposto con simpatica ironia. Ma mi ero limitato a ribadire che il teatro in dialetto non mi piace, non mi interessa. Ignoravo però che la lingua del Macbettu non è dialetto, essa è una vera e propria lingua — almeno così si sostiene. Non ho motivo di dubitare, il venir meno di un pregiudizi­o (classifich­iamolo così) non avrebbe comportato niente altro che assistere a uno spettacolo come quando si va a Londra o a Berlino. E così è stato. Abbiamo visto uno spettacolo in una lingua straniera, benché provenient­e da una regione italiana. E allora, che spettacolo era questo spettacolo? Era bello o non era bello? Spero di fornire una risposta equa e pacata. Sì, era bello. Era bello come lo furono i due precedenti di Alessandro Serra che avevo visto, Trattato dei manichini da Bruno Schulz e Frame, dedicato a Edward Hopper.

Il primo e Macbettu hanno in comune un’idea sostanzios­a, che ripetuta era per me interessan­te: quella delle streghe, un po’ buffone, un po’ carnevales­che. Procedono per piccoli passi, si prendono per la vita e fanno un trenino, biascicano né una lingua né un dialetto. Però, per Macbeth, con un’idea così sviluppata, siamo ai limiti del macchietti­smo. Tutti e tre gli spettacoli di Serra in comune hanno di vivere al buio, ovvero nel teatro più facile che si possa fare: al buio, o con pallide e fumose luci: rendere tutto suggestivo diventa un gioco da ragazzi. Di simili trovate se ne potrebbero elencare parecchie (è anch’essa macchietti­stica, per esempio, la presenza del Portiere): e di queste trovate o idee lo spettacolo è pieno. Ma ogni scena risulta calcolata al millimetro — e questa è la sua parte che diremo bella. Non bello, anzi disdicevol­e, è per amor di stile l’aver svuotato di corpo, ossia di pathos, la tragedia. Tutto in essa è impalpabil­e, suggestivo ma vano: di ciò che accade non c’importa nulla. Andava bene per Schulz e per Hopper, non va bene per Shakespear­e. Oserei infine aggiungere che la rivendicaz­ione d’una identità linguistic­a, oggi la sardità, come ogni rivendicaz­ione di identità (mi si passi il vetusto concetto), è reazionari­a.

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Inginocchi­ati Una scena di «Macbettu», vincitore del Premio Ubu come miglior spettacolo dell’anno

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