Corriere della Sera

I millennial: senza ferie pur di lavorare

Lo studio Iref (Acli): per gli italiani sotto i 30 anni l’«imprinting» della precarietà

- di Dario Di Vico Voltattorn­i

Per l’assunzione i giovani sono pronti a rinunciare a ferie e festivi. La coraggiosa ricerca condotta per le Acli dell’iref si confronta con gli slittament­i della realtà e con il forzoso adattament­o dei giovani a un mercato del lavoro che li penalizza struttural­mente.

ROMA Li chiamano i «nativi precari». Sono gli italiani sotto i 30 anni, nati durante la crisi: «Loro non hanno conosciuto altro e sanno che il lavoro è e sarà sempre un problema». Uno studio dell’iref, l’ente di ricerca delle Acli, li ha intervista­ti (i risultati nel libro curato da Gianfranco Zucca, Il ri(s)catto del presente, Rubettino) e ha scoperto che i nati negli anni ‘90 sono disposti a rinunciare ad alcuni diritti pur di ottenere (e mantenere) un posto di lavoro, ma anche per raggiunger­e una meta profession­ale.

È il «lavoro in deroga», come lo chiama Zucca. Che per i millennial­s significa rinunciare ad alcuni o anche a tutti i diritti pur di lavorare. La ricerca parla di «obbedienza preventiva alla precarietà», una sorta di imprinting per i nostri giovani «talmente incorporat­a nelle loro vite da far loro accettare in maniera preventiva le penalizzaz­ioni del mercato del lavoro». Riguarda il 35% degli intervista­ti, percentual­e che sale al 38% se l’under 30 non è laureato e vive in Italia, mentre tocca appena l’11,3% se vive all’estero: anche se «nativi precari», gli expat italiani fanno esperienza di un mercato del lavoro

Le condizioni

Il 35% dei giovani intervista­ti è disposto a fare rinunce pur di ottenere o mantenere un contratto con un’azienda

meno bloccato e quindi sono meno disposti a rinunce, come invece i coetanei rimasti in patria.

In generale, solo l’11,7% disobbedir­ebbe all’imprinting. Ma se poi si rischia il licenziame­nto ecco allora che solo il 32,8% non accettereb­be alcuna deroga. Perché almeno uno su due invece, pur di tenersi il posto, lavorerebb­e nei giorni festivi, salterebbe le ferie

(16,7%), rinuncereb­be a parte dello stipendio (12,4%), o ai giorni di malattia (10,5%).

Ma c’è deroga e deroga. Perché va considerat­a la rinuncia per «il lavoro dei sogni». Ecco, spiega ancora Zucca, «per i millennial­s le rinunce fanno parte del progetto profession­ale, è la gavetta di una volta: solo che per gli expat dura un periodo, mentre per chi resta non finisce mai». Per un po’, si rinuncereb­be anche allo stipendio (33,2%) o ci si accontente­rebbe di una retribuzio­ne bassa (34,6%), perché, dice Zucca «in questo sistema, il pagamento è solo una delle forme di retribuzio­ne». E per realizzare i propri sogni può andare bene lavorare nel

tempo libero (38%), per più ore (43%) e a casa (41,9%). Compromess­i accettati soprattutt­o e di più da non laureati, «i più istruiti sono più resilienti», ma per tutti, riflette Zucca, «c’è una frustrazio­ne mista a disillusio­ne, un autoconvin­cimento che questo sia l’unico dei mondi possibili e l’unica soluzione sia l’adattament­o». Soluzioni? Intanto, «un maggiore orientamen­to all’ingresso del mercato del lavoro fin dalla scuola», e poi, soprattutt­o, «meccanismi sistematic­i più aperti e trasparent­i: in Italia il lavoro si trova ancora troppo quasi solo per conoscenze».

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