I nuovi equilibri europei
Nuovi equilibri, instabili, ridisegnano l’europa. Uno dei Paesi fondatori sta per essere guidato da forze estranee alle tradizionali famiglie del socialismo.
ROMA Per la prima volta uno dei Paesi fondatori dell’ue potrebbe essere guidato da forze che non appartengono alle tradizionali famiglie del popolarismo e del socialismo. E l’anno prossimo il fronte «giallo-verde» potrebbe aprire come una scatoletta di tonno l’europarlamento. Basta fare un raffronto tra le elezioni del 2014 e i sondaggi attuali per capire quale sarebbe lo scenario a Strasburgo nel 2019: quattro anni fa i partiti italiani legati al Pse e al Ppe (Pd FI e Ncd) avevano raccolto oltre il 61% dei consensi, mentre il blocco populista-sovranista (M5S Lega e FDI) si era attestato appena sopra il 30%. Oggi le posizioni si sono rovesciate: in base a una media di tutti gli istituti di ricerca, i primi vengono accreditati di un modesto 30% (con trend negativo), i secondi del 59,5% (con trend positivo).
L’italia appare insomma la faglia più profonda in un’europa già divisa, una sorta di laboratorio politico vissuto come un incubo a Bruxelles: con un Consiglio europeo senza più una leadership forte e un Europarlamento polverizzato nelle rappresentanze, la crisi della Ue potrebbe approfondirsi. Perciò il discorso pronunciato ieri da Mattarella va considerato come un messaggio rivolto (anche) ai partner dell’unione, che vedono nel capo dello Stato il garante dell’ortodossia europeista a Roma. Anche perché, mentre la politica nazionale è rimasta imprigionata per due mesi nel dibattito sul «passo di lato» di Berlusconi, è da due mesi che la «novità italiana» viene osservata oltre-confine.
Ce n’è la prova nella discussione avvenuta all’indomani del 4 marzo in una delle tradizionali riunioni del Ppe che precedono i vertici dei capi di Stato e di governo. Il voto italiano era stato vissuto con sorpresa e allarme, siccome i Popolari avevano fatto affidamento sulle garanzie del Cavaliere, convinto di poter essere «l’argine ai populismi» e certo di «tenere a bada» la Lega sovranista di Salvini. Invece la missione era fallita. E nella sua relazione il capogruppo tedesco del Ppe, Weber, aveva disegnato un quadro complessivo dell’europa «molto preoccupante». In quella sede aveva anche spiegato perché — «a malincuore» — il suo gruppo aveva dovuto respingere la proposta delle liste transnazionali avanzata dal presidente francese Macron, per riempire i seggi lasciati vacanti dal Regno Unito dopo la Brexit: con quel progetto il Ppe temeva di perdere l’egemonia nell’europarlamento.
Ad ascoltare Weber c’erano — tra gli altri — la cancelliera tedesca Merkel (che annuiva), e insieme a lei il presidente della Commissione Juncker e il presidente del Consiglio europeo Tusk (che convenivano). La concorrenza di Macron avveniva in un momento delicato, con il Pse in crisi e il Ppe alle prese con gli strappi prodotti dal blocco dell’est, capeggiato dal primo ministro ungherese Orban. In aggiunta il risultato italiano rendeva il quadro «tetro». Ora, sarà pur vero che — in base alle previsioni per il 2019 — i Popolari dovrebbero restare il gruppo pivot a Strasburgo. Se però se al tracollo dei Socialisti — dato per scontato — si unisse la polverizzazione dei gruppi nell’europarlamento, salterebbe la gestione monopolistica delle cariche apicali.
Ma non è (solo) una problema di poltrone. Conclusa la riunione, in un capannello che comprendeva Merkel e Juncker, si è discusso informalmente sullo stato dell’unione e su come evitare ulteriori contraccolpi. Uno degli obiettivi era (e resta) anticipare il negoziato sul bilancio europeo prima del voto, se possibile a gennaio del 2019, per non offrire l’immagine di «spettacoli nefasti» dopo le urne. Difficile riuscirci ora che l’olanda — senza avvisare la Germania — si è posta alla testa dei paesi baltici e scandinavi per bloccare l’aumento del budget. Si tratta di una posizione che — se possibile — aggroviglia ancor di più il nodo dell’immigrazione, altro tema preso in esame in quel consesso di popolari e concluso con una «preoccupata previsione»: al vertice di giugno non si riuscirà a trovare un’intesa sulla revisione del Trattato di Dublino. Un guaio, alla luce di quanto sta accadendo a Roma. Perché un mese fa tutti in Europa si preparavano a fronteggiare la «novità italiana» nel 2019. Nessuno immaginava l’eventualità di dover fare i conti già nel 2018 con una coalizione «giallo-verde» a palazzo Chigi.
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