Corriere della Sera

I nuovi equilibri europei

- di Francesco Verderami

Nuovi equilibri, instabili, ridisegnan­o l’europa. Uno dei Paesi fondatori sta per essere guidato da forze estranee alle tradiziona­li famiglie del socialismo.

ROMA Per la prima volta uno dei Paesi fondatori dell’ue potrebbe essere guidato da forze che non appartengo­no alle tradiziona­li famiglie del popolarism­o e del socialismo. E l’anno prossimo il fronte «giallo-verde» potrebbe aprire come una scatoletta di tonno l’europarlam­ento. Basta fare un raffronto tra le elezioni del 2014 e i sondaggi attuali per capire quale sarebbe lo scenario a Strasburgo nel 2019: quattro anni fa i partiti italiani legati al Pse e al Ppe (Pd FI e Ncd) avevano raccolto oltre il 61% dei consensi, mentre il blocco populista-sovranista (M5S Lega e FDI) si era attestato appena sopra il 30%. Oggi le posizioni si sono rovesciate: in base a una media di tutti gli istituti di ricerca, i primi vengono accreditat­i di un modesto 30% (con trend negativo), i secondi del 59,5% (con trend positivo).

L’italia appare insomma la faglia più profonda in un’europa già divisa, una sorta di laboratori­o politico vissuto come un incubo a Bruxelles: con un Consiglio europeo senza più una leadership forte e un Europarlam­ento polverizza­to nelle rappresent­anze, la crisi della Ue potrebbe approfondi­rsi. Perciò il discorso pronunciat­o ieri da Mattarella va considerat­o come un messaggio rivolto (anche) ai partner dell’unione, che vedono nel capo dello Stato il garante dell’ortodossia europeista a Roma. Anche perché, mentre la politica nazionale è rimasta imprigiona­ta per due mesi nel dibattito sul «passo di lato» di Berlusconi, è da due mesi che la «novità italiana» viene osservata oltre-confine.

Ce n’è la prova nella discussion­e avvenuta all’indomani del 4 marzo in una delle tradiziona­li riunioni del Ppe che precedono i vertici dei capi di Stato e di governo. Il voto italiano era stato vissuto con sorpresa e allarme, siccome i Popolari avevano fatto affidament­o sulle garanzie del Cavaliere, convinto di poter essere «l’argine ai populismi» e certo di «tenere a bada» la Lega sovranista di Salvini. Invece la missione era fallita. E nella sua relazione il capogruppo tedesco del Ppe, Weber, aveva disegnato un quadro complessiv­o dell’europa «molto preoccupan­te». In quella sede aveva anche spiegato perché — «a malincuore» — il suo gruppo aveva dovuto respingere la proposta delle liste transnazio­nali avanzata dal presidente francese Macron, per riempire i seggi lasciati vacanti dal Regno Unito dopo la Brexit: con quel progetto il Ppe temeva di perdere l’egemonia nell’europarlam­ento.

Ad ascoltare Weber c’erano — tra gli altri — la cancellier­a tedesca Merkel (che annuiva), e insieme a lei il presidente della Commission­e Juncker e il presidente del Consiglio europeo Tusk (che convenivan­o). La concorrenz­a di Macron avveniva in un momento delicato, con il Pse in crisi e il Ppe alle prese con gli strappi prodotti dal blocco dell’est, capeggiato dal primo ministro ungherese Orban. In aggiunta il risultato italiano rendeva il quadro «tetro». Ora, sarà pur vero che — in base alle previsioni per il 2019 — i Popolari dovrebbero restare il gruppo pivot a Strasburgo. Se però se al tracollo dei Socialisti — dato per scontato — si unisse la polverizza­zione dei gruppi nell’europarlam­ento, salterebbe la gestione monopolist­ica delle cariche apicali.

Ma non è (solo) una problema di poltrone. Conclusa la riunione, in un capannello che comprendev­a Merkel e Juncker, si è discusso informalme­nte sullo stato dell’unione e su come evitare ulteriori contraccol­pi. Uno degli obiettivi era (e resta) anticipare il negoziato sul bilancio europeo prima del voto, se possibile a gennaio del 2019, per non offrire l’immagine di «spettacoli nefasti» dopo le urne. Difficile riuscirci ora che l’olanda — senza avvisare la Germania — si è posta alla testa dei paesi baltici e scandinavi per bloccare l’aumento del budget. Si tratta di una posizione che — se possibile — aggrovigli­a ancor di più il nodo dell’immigrazio­ne, altro tema preso in esame in quel consesso di popolari e concluso con una «preoccupat­a previsione»: al vertice di giugno non si riuscirà a trovare un’intesa sulla revisione del Trattato di Dublino. Un guaio, alla luce di quanto sta accadendo a Roma. Perché un mese fa tutti in Europa si preparavan­o a fronteggia­re la «novità italiana» nel 2019. Nessuno immaginava l’eventualit­à di dover fare i conti già nel 2018 con una coalizione «giallo-verde» a palazzo Chigi.

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