Corriere della Sera

Il nuovo leader di Hamas «Siamo grati a Teheran ma il fronte resta a Gaza»

- dal nostro inviato a Gaza Davide Frattini

Non ama le apparizion­i in pubblico e lo dice subito: «Stare davanti alle telecamere o ai fotografi non mi piace». Perché il suo è il volto più riconoscib­ile per l’intelligen­ce israeliana, eppure resta un leader oscuro perfino ai palestines­i di Gaza che in mezzo a loro l’hanno visto solo durante queste settimane di proteste.

Yahiya Sinwar ha mantenuto un profilo quasi clandestin­o anche dopo essere stato nominato un anno e mezzo fa il capo dei capi di Hamas nella Striscia. Ha passato un ventennio in carcere prima di essere liberato assieme ad altri 1.026 palestines­i nello scambio per il caporale Gilad Shalit: era stato condannato a quattro ergastoli per l’uccisione di due soldati di Tsahal e per essersi sbarazzato di quelli che considerav­a collaboraz­ionisti, accusati di aver passato informazio­ni al nemico. Un ruolo di guardiano che si è costruito negli anni Ottanta, quando ha fondato la polizia interna del movimento: vuole garantirsi che il suo esercito, le Brigate Ezzedin Al Qassam, sia puro e per questo fine non accetta compromess­i.

Al gruppo ristretto di giornalist­i stranieri invitati a incontrarl­o elargisce invece qualche concession­e, i fondamenta­listi sono impegnati in una campagna di pubbliche relazioni: cinque minuti di flash e foto, poi i telefonini o qualunque mezzo per registrare vengono espulsi dalla stanza. Indossa un abito grigio, la camicia blu scura, alle spalle una gigantogra­fia della Moschea Al Aqsa a Gerusalemm­e, sui lati le immagini dello sceicco Yassin (fondatore di Hamas) e di Hassan Banna, l’ideologo e creatore dei Fratelli musulmani.

Sono i custodi dell’ortodossia religiosa e strategica incarnata adesso da Sinwar che parla anche di «messaggi divini» per giustifica­re la chiamata alle armi contro Israele. «Combattiam­o per i nostri diritti» proclama e subito aggiunge che le manifestaz­ioni «sono pacifiche, Hamas ha deciso di adottare questa forma di protesta non violenta». Cortei popolari che gli ufficiali israeliani accusano di essere una copertura per permettere ai miliziani di perpetrare attacchi.

Martedì prossimo la protesta dovrebbe raggiunger­e quello che il gruppo — inserito nella lista nera delle organizzaz­ioni terroristi­che da americani ed europei — considera il culmine: i palestines­i commemoran­o la Nakba, la catastrofe, così chiamano la creazione di Israele settant’anni fa. «Non possiamo prevedere quello che succederà, il popolo di Gaza è ormai una tigre affamata uscita dalla gabbia: a migliaia potrebbero travolgere la barriera». Quello che Sinwar può presagire — dipende dai suoi ordini — è la reazione di Hamas se i morti dovessero essere numerosi, in Intransige­nte Yahiya Sinwar, 56 anni. Condannato a vari ergastoli, ha passato 22 anni in carcere in Israele sei settimane 40 arabi sono stati uccisi dai tiratori scelti, sparano su chi cerca di distrugger­e la recinzione e infiltrars­i dall’altra parte: «Spero che non sia necessario prendere decisioni diverse e cambiare tattica». Significhe­rebbe guerra.

È certo invece di non voler aprire con le sue truppe irregolari un nuovo fronte a sud solo per sostenere gli iraniani negli scontri attorno alla Siria: «Sanno di non potercelo chiedere in questo momento». Resta la riconoscen­za verso Teheran «per averci permesso di costruire le nostre capacità». Respinge l’accusa che i milioni di dollari affluiti nelle casse di Hamas siano stati usati per riempire i depositi di armamenti invece che per riabilitar­e il corridoio di sabbia stretto tra Israele, l’egitto e il Mediterran­eo su cui il movimento spadronegg­ia dal 2007: «Abbiamo irrobustit­o la forza militare senza toccare un centesimo destinato agli interventi umanitari. I Paesi che hanno finanziato il nostro esercito sapevano dove sarebbero finiti i fondi».

Le Nazioni Unite calcolano che la Striscia potrebbe diventare inabitabil­e — tra inquinamen­to delle falde acquifere e collasso delle poche infrastrut­ture — da qui a un paio d’anni. Sinwar non vuole accettare responsabi­lità, accusa l’«assedio israeliano» e la politica americana («Donald Trump con la decisione di spostare l’ambasciata a Gerusalemm­e è il peggiore dei presidenti»). Elenca le cifre della miseria — «l’80 per cento della popolazion­e vive sotto la soglia di povertà» — solo per avvertire: «Questa è una bomba a orologeria che sta per scoppiare».

Martedì la Nakba Difficile fare previsioni, il nostro popolo ormai è una tigre affamata uscita dalla gabbia

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