«Raccolti 2 milioni di euro per il jihad» Tra Lombardia e Sardegna 13 arresti
Un terrorista intercettato: la rivoluzione si fa con il fucile non scrivendo su Facebook
ROMA «Conosco molto bene il conflitto siriano perché uno dei miei fratelli comanda una falange di Daesh. Io ho combattuto per quattro anni con Al Nusra e poi sono finito in carcere per otto mesi». È il 24 aprile 2017. Chaddad Ayoub parla nella sede della società di Bologna dove è stato assunto come magazziniere. Non sa che il collega è agente sotto copertura. Conferma di essere un foreign fighter e aggiunge: «Chi si presta a fare il kamikaze deve amare la religione e non avere paura della morte. Egli è una persona diversa dalle altre, ma tutti sanno che andando a morire andrà in Paradiso sulla strada giusta».
«Rete» internazionale
Ayoub è una delle tredici persone, sono tutti stranieri, arrestate nell’operazione della Guardia di Finanza e Antiterrorismo della polizia coordinata dalla Procura nazionale con l’accusa di aver finanziato le cellule fondamentaliste riciclando anche i soldi provenienti dal traffico di migranti attraverso la rotta balcanica. Oltre due milioni di euro trasferiti in Siria grazie al sistema «Hawala» che consente il passaggio di denaro senza lasciare traccia perché si muove attraverso le persone che trattengono una percentuale sullo «scambio». Sono due i gruppi individuati nel nostro Paese (uno in Lombardia e uno in Sardegna) al termine di un’indagine che dimostra come l’italia fosse stata scelta come base logistica dove raccogliere e investire i finanziamenti, ma anche reclutare persone per sostenere l’attività degli estremisti. Uno di loro aveva sposato un’italiana, Cristina Agretti, che vive in provincia di Sondrio ed è nell’elenco degli indagati. A delineare ruoli e compiti è stato Abdulmalek Mohamad, indagato che ha scelto di collaborare e ha svelato anche numerosi dettagli sui collegamenti con altri stranieri in Svezia, Ungheria, Austria, Germania, l’olanda, Danimarca ma anche in Siria, Turchia e Libano.
Gli appalti del G8
A capo dell’organizzazione i magistrati individuano il siriano Daadoue Anwar, rappresentante legale dell’associazione culturale Assalam che nel 2009 aveva ottenuto commesse per i lavori del G8 alla Maddalena.
Racconta Mohamad: «Conosco personalmente Daadoue, che è di Idlib; so che ha molti soldi, in passato aveva una ditta edilizia in Sardegna, con la quale si è arricchito, penso facendo tante fatture false. Anwar è riuscito a raccogliere tanti soldi e li ha collocati un po’ in Turchia, un po’ a Damasco e un po’ in Svezia». Denaro che veniva poi impiegato per gli «aiuti» ai siriani. In un interrogatorio del 3 aprile 2017 il collaboratore «rivela che dall’italia venivano inviati soldi per acquistare prevalentemente mezzi di soccorso, medicine, vestiti ma anche componenti belliche». E spiega: «L’unica cosa che è stata comprata dall’italia sono i mirini ottici per Kalashnikov, comprati da tale Ibrahim, ma non so a chi sono andati, se ad Al-nusra o ad altri gruppi».
«Prendi il fucile»
In una conversazione intercettata il 13 luglio Ayoub parla con il cugino Shadad Mohamad Manaf.
Ayoub: «Il rivoluzionario è colui che prende il fucile e va alla frontiera. La rivoluzione non si fa su Facebook. Ho due profili su Facebook, non ho mai messo una fotografia sulla rivoluzione e non ho mai messo un commento sulla rivoluzione».
Manaf: «Da quando sono arrivato dalla Turchia, non ho messo nulla su Facebook... se uno vuole professarsi rivoluzionario deve trovarsi con loro. Se non vuole combattere, almeno dovrà fare il guardiano per loro».
Claudio Galzerano, capo del servizio esterno dell’antiterrorismo individua il fulcro dell’inchiesta: «Gli indagati sono tutti immigrati regolari e hanno approvato in pieno la linea dei terroristi. Sono tra noi e spetta a noi fermarli».
I profili «Gli indagati sono tutti immigrati regolari: sono tra noi e spetta a noi fermarli»