Corriere della Sera

«Le mie canzoni sono ancora proibite»

Emel Mathlouthi, voce scomoda della primavera araba: Tunisi non ama gli inni alla libertà

- Giuseppina Manin

La sua voce ha il profumo dei gelsomini, dolce e lancinante come quello della primavera araba di cui le canzoni di Emel Mathlouthi sono diventate l’inno per migliaia di giovani tunisini decisi a rivendicar­e i diritti base di ogni essere umano: lavoro, libertà, dignità. Primavera intirizzit­a, ormai lontana. «Ma non tutto è perduto. Finché quel sogno che ha fatto intravvede­re la luce di una realtà diversa esiste e resiste, darà i brividi a qualsiasi nuova dittatura» garantisce Emel, le cui musiche accompagne­ranno domani a Udine, al Premio Terzani, la conversazi­one tra il vincitore Domenico Quirico e la giornalist­a del Corriere della Sera Marta Serafini.

«Sono onorata di questo invito. Amo l’italia e il vostro cinema, la porta magica per capire un Paese e la sua gente. Come la musica, che mette in contatto culture lontane. Non so come vengano percepite qui le mie canzoni che attingono a sonorità del Maghreb, ma so che arrivano dritte alle orecchie e al cuore di tutti». Il Attesa a Udine Emel Mathlouthi si esibirà domani a Udine nel corso del Premio Terzani canto libero di Emel risuona forte e chiaro nelle strade di Tunisi come ovunque nel mondo.

«Ho cominciato a scrivere canzoni a 10 anni ma ho capito il loro potere di scuotere dall’apatia ascoltando Björk e Joan Baez». E di Here’s To You, scritta da Baez per il film di Montaldo sugli anarchici Sacco e Vanzetti, Emel riscrive una versione araba in omaggio a Mohamed Bouazizi, l’ambulante che si dette fuoco per protesta contro le angherie della polizia. Poi è la volta di Kelmti Horra, canzone simbolo della Rivoluzion­e dei gelsomini. «Nata in spiaggia, al festival del cinema di Kelibia. Da tempo avevo in mente quei versi senza trovare la giusta melodia. La magia è successa quella notte».

La mia parola è libera, titolo in italiano, si canta per ogni strada di Tunisi, sottovoce o a squarciago­la ma è bandita da radio e tv. «È la logica della nostra censura. Non proibisce nulla in modo ufficiale ma taglia le gambe a chi esce dal coro. Oggi le cose vanno un po’ meglio, ma chi è scomodo continua a essere emarginato e grande è la corruzione nel ministero della Cultura».

La voce di Emal non tollera costrizion­i, a 25 anni lascia il suo Paese, va dove la porta il sogno: in Egitto, in Iraq, in Iran. Canta al Nobel per la Pace a Oslo ma anche all’opera di Teheran. «Una sfida, una piccola breccia nella legge che proibisce alle donne di cantare davanti a un pubblico misto. E mai da sole, sempre con cantanti uomini per coprire la loro voce».

Così come il velo continua a coprire le loro teste. Ora più di prima. «Viviamo tempi di crisi, identitari­a, economica. Le persone si ripiegano su se stesse, si rifugiano in dogmi rassicuran­ti come il rifiuto dell’altro, della diversità. Quando ci si sente insicuri, quando i governi non riescono a dar risposte reali, si cerca di ritrovare una certa spirituali­tà dentro antiche credenze». Adesso vive a New York, nell’america del «muslim ban» di Trump. «Però c’è anche il movimento #Metoo, vero terremoto delle donne contro la violenza maschile. Non so come sarà il futuro, quel che so è che, in qualsiasi parte del mondo, staremo molto meglio se sapremo vivere insieme nella tolleranza e nella ricchezza della diversità. Velo o non velo».

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