Corriere della Sera

Vita (e fame) in Venezuela: fuga da tre dollari al mese

Le donne oltreconfi­ne vendono i capelli (valgono 10 stipendi) I medici si uniscono al milione di profughi in Colombia per non soffrire la fame e vedere i pazienti morire senza cure

- di Rocco Cotroneo

Vendere i capelli per disperazio­ne; raccattare avanzi in un ristorante, piuttosto che rovistare nei bidoni della spazzatura. Con salari da 3 dollari al mese. È il Venezuela di oggi. Dove ogni giorno dalle 30.000 alle 40.000 persone passano il ponte che collega il Paese alla Colombia: molti per comprare di tutto e tornare a casa, altri per lasciare il Venezuela per sempre.

CUCUTA (FRONTIERA COLOMBIA-VENEZUELA) Al ristorante Mundipollo la fila comincia all’alba. Non sono clienti, ma disperati che ricevono gli avanzi della sera prima. Un po’ di carne rimasta attaccata ad ali di pollo fritto. Molte le donne con i bambini in braccio, arrivano con sacchetti di plastica e persino secchi per portarne via il più possibile. Piazza Simon Bolivar: la statua a cavallo del Libertador, ironia nella tragedia, guarda i venezuelan­i ridotti alla fame dalla rivoluzion­e fatta in suo nome. In un’altra piazza di Cucuta, il Parque Santander, il signor Aristides ha un cartello al collo con la scritta «Si comprano capelli» e sta esaminando un paio di ciocche biondastre portate da un ragazzo. Le interessat­e sono accompagna­te in una specie di parrucchie­re clandestin­o al secondo piano di un edificio commercial­e. Ne escono con il corrispett­ivo di 20 o 30 euro e gli occhi gonfi di lacrime. Il loro tesoro — nessuno tiene tanto ai capelli lunghi e lisci come una venezuelan­a — diventerà parrucca in una fabbrica di Medellín. Gladys schiva le domande ma l’amica, borbotta amara: «Piuttosto finisco in strada stanotte, ma questi non si toccano».

Vendere i capelli per disperazio­ne, in alternativ­a alla prostituzi­one; raccattare avanzi in un ristorante, piuttosto che rovistare nei bidoni della spazzatura. La grande fuga dei venezuelan­i attraverso questa città di confine — un tempo nota solo per i terremoti e i gigantesch­i alberi tropicali — accumula ogni giorno che passa storie atroci e problemi sempre meno gestibili. Un milione di persone è la stima di coloro che dagli effetti nefasti del chavismo gestito da Nicolás Maduro sono fuggiti verso la vicina Colombia, tre milioni la diaspora in tutto il mondo. È la più grave crisi umanitaria in Occidente da decenni. Ogni giorno passano attraverso il ponte che unisce i due Paesi dalle 30.000 alle 40.000 persone, molti per comprare di tutto e tornare a casa, altri per lasciare il Venezuela per sempre. Il picco in questi giorni alla vigilia delle elezioni presidenzi­ali truffa che si svolgerann­o domenica. Da stamani, per ordine di Caracas, il ponte resterà chiuso fino a dopo il voto.

Ad attendere i rifugiati da questo lato del confine una diabolica economia nata sulla loro tragedia: la vendita di passaggi in autobus per qualunque città della Colombia, ma anche Perù, Ecuador e giù giù fino a Santiago del Cile o Buenos Aires, il ritiro della lo- ro moneta ridotta a carta straccia, l’offerta di qualunque forma di lavoro nero e sfruttamen­to. Ma ci sono anche notevoli sforzi di aiuto umanitario. In città funzionano una decina di rifugi messi in piedi dal governo con l’aiuto dell’onu e di organizzaz­ioni religiose. «La Colombia non è mai stato un Paese di immigrazio­ne, non eravamo pronti ma ora le cose sono molte migliorate», ammette nel suo ufficio Juan Carlos Cortes, il responsabi­le della frontiera nel governo locale. In un’altra piazza del centro la fila dei venezuelan­i sotto un sole implacabil­e è lunga tre isolati per andare a ritirare soldi arrivati da amici e parenti all’estero. Gestisce i numerini una signora con la mascherina sulla bocca. Non si sa mai. Le notizie vere o esagerate sulla diffusione di malattie portate dai venezuelan­i sono circolate in fretta, qui come alla frontiera con il Brasile, l’altro sbocco di fuga. In Venezuela è al collasso anche il sistema sanitario.

Per averne un’idea occorre fare il cammino inverso della marea umana lungo il ponte Simon Bolivar (da tre anni si passa solo a piedi) poi prendere un taxi e dopo un’ora arrivare all’ospedale centrale di San Cristobal, la prima città venezuelan­a della regione. Epicentro della rivolta del 2014 soffocata nel sangue, questa comunità ne ha pagato duramente le conseguenz­e. Il sindaco legittimo Daniel Ceballos è da quattro anni sotto arresto e ora è in una cella dei servizi segreti del regime a Caracas. I suoi ex governati stanno appena un po’ meglio. Una dottoressa dell’ospedale racconta che il 70 per cento dei medici e degli infermieri si sono volatilizz­ati nel giro degli ultimi sei mesi e che in pratica la sanità pubblica a San Cristobal non esiste più. Con salari frantumati dall’inflazione a pochi dollari al mese (tre, secondo il cambio nero) in molti sono stati costretti a fare altro. O hanno passato il ponte per Cucuta, o sono entrati nella catena dell’economia informale, che all’apice della necessità diventa contrabban­do. «Anche se tornassero tutti, ormai metà delle apparecchi­ature qui è sparita».

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Una veduta aerea di migliaia di venezuelan­i che cercano di entrare in Colombia attraverso il ponte internazio­nale Simon Bolivar, a Cucuta
 ??  ?? Esibire i documenti Migliaia di cittadini venezuelan­i mostrano le carte d’identità prima di sottoporsi all’ispezione da parte dell’ufficio immigrazio­ne colombiano (Ap/fernando Vergara)
Esibire i documenti Migliaia di cittadini venezuelan­i mostrano le carte d’identità prima di sottoporsi all’ispezione da parte dell’ufficio immigrazio­ne colombiano (Ap/fernando Vergara)
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 ??  ?? Il dramma Alcuni venezuelan­i su un’auto diretta in Colombia (Afp); a destra, la fila sul ponte di Cucuta (Ap) e gli scaffali vuoti dei supermerca­ti
Il dramma Alcuni venezuelan­i su un’auto diretta in Colombia (Afp); a destra, la fila sul ponte di Cucuta (Ap) e gli scaffali vuoti dei supermerca­ti
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