L’invasione dei condizionatori «È il nuovo allarme ambientale»
Gli studi: saranno 5,6 miliardi nel 2050, seconda voce di consumi energetici «L’impegno per le donne cambia il futuro dell’africa»
Potrebbe diventare il rumore di fondo delle nostre notti d’estate. Non grilli, cicale, o onde del mare, bensì il ronzio dei condizionatori d’aria di case e uffici. Se si dà però retta all’iea — l’agenzia internazionale dell’energia — più che in un’indesiderata garanzia di insonnia, la questione rischia di trasformarsi in un serio problema globale, ambientale ed economico. Un possibile «cold crunch» in arrivo nel prossimo futuro, una «crisi fredda» per gli enormi consumi di energia elettrica e le emissioni in atmosfera di gas serra.
Il condizionatore d’aria è uno dei simboli di benessere, tanto che il suo uso si è triplicato dal 1990 al 2016. Nel mondo se ne vendono ormai 135 milioni l’anno e lo «stock» complessivo sul pianeta è arrivato a quota 1,6 miliardi, calcola l’iea. Più della metà in Cina e Usa, per un consumo di elettricità due volte e mezza superiore a quello di tutta l’africa.
Cifre e paragoni impressionanti se non fosse che a questo ritmo di crescita — e non ci sono motivi perché debba rallentare — nel 2050 il numero dei condizionatori d’aria sul pianeta è previsto a quota 5,6 miliardi. Un’enormità: significa più di quattro nuovi apparecchi venduti ogni secondo per i prossimi trent’anni. Una tendenza pressoché inarrestabile, prosegue l’iea, che si deve a parecchi fattori, tutti all’opera contemporaneamente. In primo luogo all’aumento dei livelli di reddito nei Paesi più caldi della terra. L’accesso all’elettricità — e quindi anche a un condizionatore d’aria — diventa sempre più un obiettivo di sviluppo sociale. Dei 2,8 miliardi di abitanti di queste zone «hot» del pianeta, spiega sempre l’agenzia, solo l’8% possiede oggi un condizionatore, contro il 90% di Usa e Giappone, o il quasi 100% di diversi ricchi emirati del Medio Oriente (e il 60% della Cina).
Ma anche l’urbanizzazione, un trend che riguarderà indifferentemente Occidente e Oriente, Nord e Sud, causerà aumenti della domanda. Più grandi saranno le città più le temperature al loro interno saliranno, per un effetto perverso: un condizionatore si limita a «spostare» aria calda all’esterno degli edifici, provocando così un incremento di calore di uno o più gradi (si chiama «heat island effect») che a sua volta rende i condizionatori meno efficaci. Persino l’invecchiamento della popolazione, altra tendenza in atto, darà il suo contributo. Generalmente gli anziani tollerano il caldo meno dei giovani e se nel 2017 il 13% della popolazione mondiale (962 Totale mondo
Efficienza Proiezione nel 2050
In Ue e Giappone i condizionatori sono energeticamente del 25% più efficienti di quelli presenti in Usae Cina miliardi
I condizionatori che saranno presenti in Cina nel 2050, secondo le previsioni dell’iea Nel giro di 30 anni prevista la vendita di 4 apparecchi ogni secondo in tutto il mondo, pari a circa
5,6 miliardi di pezzi milioni) aveva più di 60 anni, nel 2050 si arriverà al 25% (2,1 miliardi), con l’eccezione dell’africa.
Miliardi di condizionatori attivi, dunque, e tanta energia per farli funzionare. L’elettricità in più necessaria al 2050 per raffreddare le case sarà inferiore solo a quella richiesta dagli usi industriali. Le emissioni di CO2 e altri gas serra saliranno in parallelo, perché se di giorno o con il vento l’energia solare e l’eolica possono coprire la domanda, di notte dovranno lavorare impianti «tradizionali», che utilizzano fonti fossili e inquinanti. Tra il 1990 e il 2016 il «peso» del raffreddamento degli edifici sulle emissioni di CO2 è passato dal 6 al 12%. Proseguendo su questa strada anche gli obiettivi di decarbonizzazione della conferenza di Parigi del 2015 sarebbero resi più incerti. Cosa si può fare? La strada, sembra obbligata e non senza ostacoli. Rendere i condizionatori e le abitazioni sempre più efficienti. Accelerare sul fronte delle energie rinnovabili e sulle tecnologie di «immagazzinamento» di elettricità pulita. Introdurre standard internazionali obbligatori e condivisi. Ricette che dopo le spallate alle intese sul clima dell’amministrazione Trump (che resta pur sempre il primo «socio» dell’iea) non sembrano facilmente applicabili.
I numeri — contenuti in un rapporto della Banca Mondiale pubblicato pochi giorni fa — sono questi: nell’africa subsahariana la fertilità è passata da 6,6 figli per donna (nel 1960) a 4,92 nel 2015. Un decremento a cui si associa un aumento dell’aspettativa di vita delle donne: da 41,8 anni (sempre nel 1960) si è passati ai 61,6 del 2015. Di questo tema — «Africa: tra crescita demografica e migrazioni. Del perché prendersi cura di mamma e bambini» — si parlerà domani dalle 10 e 30 a Milano in un convegno, moderato da Gian Antonio Stella, firma del Corriere della Sera, al Centro missionario Pime. Un incontro organizzato da «Medici con l’africa Cuamm», realtà che dal 1950 opera in Africa «in ventidue ospedali dove lavorano duecento medici italiani oltre a 1.500 operatori sanitari locali» racconta orgoglioso don Dante Carraro, il direttore della Ong. «La letteratura internazionale dimostra che se cala la mortalità infantile e quella da parto cala anche la natalità. Questa è una delle nuove e grandi sfide da
Le vendite
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affrontare in Africa» spiega don Dante, veneto, 60 anni, maratoneta appassionato, una laurea in cardiologia e soprattutto una vita trascorsa nei posti più poveri della terra affrontando emergenze umanitarie di ogni genere. Il direttore del Cuamm fornisce un dato significativo: «Operando in scuole e università siamo riusciti a far laureare ventidue ostetriche: questo in Paesi come il Sud Sudan, dove ogni ventimila mamme che partoriscono di ostetriche ce n’è una sola. Una di loro mi ha raccontato di avere il sogno di raggiungere l’europa ma dopo la laurea ha cambiato idea: “Sono orgogliosa di stare qui e fare la mia parte per il mio Paese”. Insomma: si resta più volentieri nel proprio paese se il welfare funziona». Certe cifre rimangono comunque drammatiche: nel 2015 ogni 100.000 nascite sono morte per parto 547 madri. «Ma erano 990 nel 1960, un dato in discesa: ecco perché — è la riflessione di Giovanni Putoto, responsabile ricerca del Cuamm — serve investire in programmi di salute pubblica che rafforzino i sistemi sanitari locali. Una politica vitale e che paga».