Corriere della Sera

L’invasione dei condiziona­tori «È il nuovo allarme ambientale»

Gli studi: saranno 5,6 miliardi nel 2050, seconda voce di consumi energetici «L’impegno per le donne cambia il futuro dell’africa»

- Alessandro Fulloni

Potrebbe diventare il rumore di fondo delle nostre notti d’estate. Non grilli, cicale, o onde del mare, bensì il ronzio dei condiziona­tori d’aria di case e uffici. Se si dà però retta all’iea — l’agenzia internazio­nale dell’energia — più che in un’indesidera­ta garanzia di insonnia, la questione rischia di trasformar­si in un serio problema globale, ambientale ed economico. Un possibile «cold crunch» in arrivo nel prossimo futuro, una «crisi fredda» per gli enormi consumi di energia elettrica e le emissioni in atmosfera di gas serra.

Il condiziona­tore d’aria è uno dei simboli di benessere, tanto che il suo uso si è triplicato dal 1990 al 2016. Nel mondo se ne vendono ormai 135 milioni l’anno e lo «stock» complessiv­o sul pianeta è arrivato a quota 1,6 miliardi, calcola l’iea. Più della metà in Cina e Usa, per un consumo di elettricit­à due volte e mezza superiore a quello di tutta l’africa.

Cifre e paragoni impression­anti se non fosse che a questo ritmo di crescita — e non ci sono motivi perché debba rallentare — nel 2050 il numero dei condiziona­tori d’aria sul pianeta è previsto a quota 5,6 miliardi. Un’enormità: significa più di quattro nuovi apparecchi venduti ogni secondo per i prossimi trent’anni. Una tendenza pressoché inarrestab­ile, prosegue l’iea, che si deve a parecchi fattori, tutti all’opera contempora­neamente. In primo luogo all’aumento dei livelli di reddito nei Paesi più caldi della terra. L’accesso all’elettricit­à — e quindi anche a un condiziona­tore d’aria — diventa sempre più un obiettivo di sviluppo sociale. Dei 2,8 miliardi di abitanti di queste zone «hot» del pianeta, spiega sempre l’agenzia, solo l’8% possiede oggi un condiziona­tore, contro il 90% di Usa e Giappone, o il quasi 100% di diversi ricchi emirati del Medio Oriente (e il 60% della Cina).

Ma anche l’urbanizzaz­ione, un trend che riguarderà indifferen­temente Occidente e Oriente, Nord e Sud, causerà aumenti della domanda. Più grandi saranno le città più le temperatur­e al loro interno saliranno, per un effetto perverso: un condiziona­tore si limita a «spostare» aria calda all’esterno degli edifici, provocando così un incremento di calore di uno o più gradi (si chiama «heat island effect») che a sua volta rende i condiziona­tori meno efficaci. Persino l’invecchiam­ento della popolazion­e, altra tendenza in atto, darà il suo contributo. Generalmen­te gli anziani tollerano il caldo meno dei giovani e se nel 2017 il 13% della popolazion­e mondiale (962 Totale mondo

Efficienza Proiezione nel 2050

In Ue e Giappone i condiziona­tori sono energetica­mente del 25% più efficienti di quelli presenti in Usae Cina miliardi

I condiziona­tori che saranno presenti in Cina nel 2050, secondo le previsioni dell’iea Nel giro di 30 anni prevista la vendita di 4 apparecchi ogni secondo in tutto il mondo, pari a circa

5,6 miliardi di pezzi milioni) aveva più di 60 anni, nel 2050 si arriverà al 25% (2,1 miliardi), con l’eccezione dell’africa.

Miliardi di condiziona­tori attivi, dunque, e tanta energia per farli funzionare. L’elettricit­à in più necessaria al 2050 per raffreddar­e le case sarà inferiore solo a quella richiesta dagli usi industrial­i. Le emissioni di CO2 e altri gas serra saliranno in parallelo, perché se di giorno o con il vento l’energia solare e l’eolica possono coprire la domanda, di notte dovranno lavorare impianti «tradiziona­li», che utilizzano fonti fossili e inquinanti. Tra il 1990 e il 2016 il «peso» del raffreddam­ento degli edifici sulle emissioni di CO2 è passato dal 6 al 12%. Proseguend­o su questa strada anche gli obiettivi di decarboniz­zazione della conferenza di Parigi del 2015 sarebbero resi più incerti. Cosa si può fare? La strada, sembra obbligata e non senza ostacoli. Rendere i condiziona­tori e le abitazioni sempre più efficienti. Accelerare sul fronte delle energie rinnovabil­i e sulle tecnologie di «immagazzin­amento» di elettricit­à pulita. Introdurre standard internazio­nali obbligator­i e condivisi. Ricette che dopo le spallate alle intese sul clima dell’amministra­zione Trump (che resta pur sempre il primo «socio» dell’iea) non sembrano facilmente applicabil­i.

I numeri — contenuti in un rapporto della Banca Mondiale pubblicato pochi giorni fa — sono questi: nell’africa subsaharia­na la fertilità è passata da 6,6 figli per donna (nel 1960) a 4,92 nel 2015. Un decremento a cui si associa un aumento dell’aspettativ­a di vita delle donne: da 41,8 anni (sempre nel 1960) si è passati ai 61,6 del 2015. Di questo tema — «Africa: tra crescita demografic­a e migrazioni. Del perché prendersi cura di mamma e bambini» — si parlerà domani dalle 10 e 30 a Milano in un convegno, moderato da Gian Antonio Stella, firma del Corriere della Sera, al Centro missionari­o Pime. Un incontro organizzat­o da «Medici con l’africa Cuamm», realtà che dal 1950 opera in Africa «in ventidue ospedali dove lavorano duecento medici italiani oltre a 1.500 operatori sanitari locali» racconta orgoglioso don Dante Carraro, il direttore della Ong. «La letteratur­a internazio­nale dimostra che se cala la mortalità infantile e quella da parto cala anche la natalità. Questa è una delle nuove e grandi sfide da

Le vendite

Se ne vendono ormai 135 milioni all’anno Così sono a rischio gli accordi sul clima

Cure e demografia I numeri dicono che mentre cala il numero dei figli sale l’aspettativ­a di vita

affrontare in Africa» spiega don Dante, veneto, 60 anni, maratoneta appassiona­to, una laurea in cardiologi­a e soprattutt­o una vita trascorsa nei posti più poveri della terra affrontand­o emergenze umanitarie di ogni genere. Il direttore del Cuamm fornisce un dato significat­ivo: «Operando in scuole e università siamo riusciti a far laureare ventidue ostetriche: questo in Paesi come il Sud Sudan, dove ogni ventimila mamme che partorisco­no di ostetriche ce n’è una sola. Una di loro mi ha raccontato di avere il sogno di raggiunger­e l’europa ma dopo la laurea ha cambiato idea: “Sono orgogliosa di stare qui e fare la mia parte per il mio Paese”. Insomma: si resta più volentieri nel proprio paese se il welfare funziona». Certe cifre rimangono comunque drammatich­e: nel 2015 ogni 100.000 nascite sono morte per parto 547 madri. «Ma erano 990 nel 1960, un dato in discesa: ecco perché — è la riflession­e di Giovanni Putoto, responsabi­le ricerca del Cuamm — serve investire in programmi di salute pubblica che rafforzino i sistemi sanitari locali. Una politica vitale e che paga».

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