Corriere della Sera

Lo sguardo eccessivo della regista

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Un racconto brevissimo di Murakami (Granai incendiati, nella raccolta L’elefante scomparso e altri racconti) serve al coreano Lee Chang-dong per scavare nella complessit­à dei rapporti umani e ribadire (come già in Poetry) la ambigua fascinazio­ne del denaro che sembra potere tutto. In Burning (Bruciando, anche se i granai del libro diventano nel film serre di plastica), il regista fa vivere tutto questo al giovane Jongsu, aspirante scrittore innamorato della compagna di giochi Haemi che ha ritrovato ventenne. Per lei sembra disposto a credere alla possibilit­à della felicità (e persino all’esistenza di un gatto che non vede mai) ma l’incontro tra la ragazza e il ricco Ben mette in crisi le sue piccole «certezze». E il suo sogno d’amore. Tutto questo però Lee Chang-dong lo racconta con il suo tipico stile raffrenato, come sospeso sulle cose (e sulle persone) che non sono mai come davvero appaiono. E che fanno del film un lungo, misterioso (a volte, troppo misterioso) viaggio verso un irraggiung­ibile ideale di felicità. Chi ha invece le idee molto chiare, rispetto alla felicità e alla propria vita, è Zain, il protagonis­ta 12enne di Capharnaüm di Nadine Labaki (dal nome della città dove Cristo iniziò a predicare, poi sinonimo di confusione). Tanto chiare da citare in giudizio i genitori perché l’hanno messo al mondo. Lo spunto, dichiarata­mente irreale ma dato per vero, serve alla regista per alcuni lunghissim­i flashback che descrivono la situazione disperata di chi nasce nella miseria, si tratti di migranti o di poverissim­i. Quello che il film mostra strazia il cuore, tra fame, miseria, violenza, approfitta­tori che comprano i neonati per rivenderli o maschi in cerca di mogli men che adolescent­i (che i genitori pensano così di «sistemare» in qualche modo). E lo racconta schiaccian­do fino in fondo il pedale dell’emotività. Nessuno mette in dubbio che la realtà sia così drammatica, ma è lo sguardo della regista che non convince, troppo preoccupat­a di trasformar­e ogni inquadratu­ra in un grido di dolore, ogni scena in un atto d’accusa.

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