Cannes senza Hollywood mostra i segni della crisi
Poche star, Netflix assente, caos delle proiezioni. Il direttore vacilla
I l cannoneggiamento aveva accompagnato il festival dall’inaugurazione, ma è stato Variety, in un articolo del 14 maggio, a sganciare la madre di tutte le bombe: «Una tempesta perfetta di forze sfida gli eccessi di Cannes» titolava e giù un articolo lungo e documentato sulla crisi del festival e soprattutto del suo delegato generale (leggi: direttore) Thierry Frémaux, il cui posto sembrerebbe molto traballante.
È l’atto finale (per ora) di una guerra che gli americani hanno dichiarato al festival «più importante del mondo» (è una qualità di cui si vanta spesso Frémaux, ma che Variety si guarda bene dal ripetere nel suo articolo) dopo anni in cui la Croisette sembrava diventata almeno per quindici giorni il cinquantunesimo stato dell’unione. La causa scatenante? L’affaire Netflix, che l’anno scorso aveva rischiato di far cadere la testa del direttore (perché aveva messo in concorso «senza consultarsi con nessuno» i film di Bong Joon-ho e di Noah Baumbach prodotti dal gruppo americano) e che quest’anno invece, con l’ostracismo totale dell’etichetta, rischia di mettere in discussione addirittura il festival.
Nel 2017 la retromarcia di Frémaux era stata «imposta» dal consiglio di amministrazione del Festival, soprattutto — secondo la ricostruzione di Variety — da Didier Diaz (a capo del gruppo Traspa, che noleggia materiali per le riprese) e Richard Patry (presidente della Federazione nazionale dei cinema francesi), pronti a imporre la clausola secondo cui i film che non escono in sala non possono concorrere alla Palma. Con la conseguenza, quest’anno, che Netflix si è ritirata da tutte le selezioni, negando al Festival Anni 70 uno dei titoli più attesi, l’ultimo film di Orson Welles The Other Side of the Wind, finalmente montato grazie ai soldi della catena americana (e che la Mostra di Venezia si è subito accaparrato).
A cui va aggiunta un’altra nocciolina: gli 8 miliardi di dollari che Netflix ha dichiarato di voler investire l’anno prossimo nella produzione. E di cui Hollywood non può (e non vuole) fare a meno, spingendo così l’industria e i suoi media - a cominciare da Variety - a schierarsi in sua difesa. Senza dimenticare, poi, le Vanessa Paradis (45 anni) in una scena di «Un couteau dans le coeur» di Yann Gonzalez strategie di marketing sia degli studios che dei produttori indipendenti, convinti che per certi titoli (quelli che fanno gola a Cannes) l’oscar renda più di una Palma. Così quest’anno Frémaux ha dovuto rinunciare a Peterloo di Mike Leigh e The Sister Brothers di Audiard e pur di avere un blockbuster di richiamo ha finito per digerire che la presentazione ufficiale di Solo: A Star Wars Story fosse organizzata a Los Angeles una settimana prima di quella di Cannes.
La scarsa capacità di attirare star d’oltreatlantico, i prezzi non proprio popolari della Croisette (per i 15 giorni del festival gli alberghi aumentano le loro tariffe mediamente del 150 per cento) e una programmazione che sembra fatta per scontentare tutti, con giorni privi di interesse e altri dove non si riusciva a tener dietro agli impegni (e l’attesissimo film di Nuri Bilge Ceylan, già vincitore nel 2014 di una Palma d’oro e quest’anno in concorso con L’albero delle pere selvatiche, messo stasera, così che nessuno finirà per parlarne) hanno chiuso il cerchio di quella «tempesta perfetta» che l’industria di Hollywood vede profilarsi sopra la testa di Frémaux e i destini di Cannes (e che anzi sembra pronta a favorire). A cui si è aggiunta proprio ieri l’ultima simpatica ciliegina. La regola per cui i film in concorso devono per forza uscire prima nei cinema sembra valere solo per i nemici di Netflix non per l’amatissimo Godard: acclamato (giustamente) da molta stampa, Le Livre d’image non arriverà nelle sale perché verrà programmato direttamente dalla rete franco-tedesca Arte. Per far saltare definitivamente la mosca al naso agli americani non sembra ci voglia molto altro.