Froome vola, Yates c’è Duello sullo Zoncolan
L’ombra di Fabio Aru taglia il traguardo quasi due minuti e mezzo dopo Froome, schiacciata sull’asfalto, lontana dagli altri favoriti, doppiata anche da una decina di gregari. Il sardo si stacca a sei chilometri dall’arrivo, ben prima che cominci la vera sfida: il corpo incapace di stare composto sul manubrio, la bocca spalancata a cercare ossigeno per provare, generoso come sempre, a spingere una bici imbullonata sull’asfalto.
Il giorno del riscatto è quello del tracollo: il capitano della Emirates ora è 13° a 5’33” da Yates. Il podio è un miraggio e anche il contentino di una vittoria di tappa pare lontano. «Sono deluso — spiega dopo l’arrivo — non stavo bene. Durante la tappa le sensazioni non erano male ma sullo Zoncolan mi è mancata la potenza. Non è il mio livello, non è normale così. Cercherò una spiegazione». Poi una sorta di resa: «La vita va avanti, ci sono altre cose belle».
La crisi di Aru non è anormale, come sostiene lui. Dalla sua ultima vera impresa (la vittoria alla Vuelta 2015) sono passati tre anni. In mezzo — titolo italiano a parte — il crollo al Tour 2016, il cedimento dopo la fiammata iniziale nel 2017, la disfatta all’ultima Vuelta. Da tre anni Aru arriva ai grandi giri o troppo in forma o in ritardo di condizione. Lo scorso agosto Fabio ha lasciato l’astana, in cui era nato come professionista, firmando con l’italoaraba Uae Emirates un principesco contratto da (circa) due milioni e mezzo, facendo valere i suoi exploit del 20132015 e il suo possibile ruolo di «nuovo Nibali». Strappo pieno di rancori: Aru ha bruciato il suo passato, compreso Maurizio Mazzoleni, il coach con cui aveva condiviso vita e allenamenti, senza una pubblica parola di ringraziamento. Discutere dell’allenamento di Aru (e delle sue crisi) è difficile e non solo per il carattere chiuso del corridore. Il suo nuovo mentore, Paolo Tiralongo, ripete all’infinito che «i numeri sono buoni», il suo medico che «non esistono problemi di salute».
Tiralongo è ormai il solo coach di un grande team a non aver alle spalle un percorso di qualificazione professionale. I rivali del sardo sono esperti di altissimo livello: il coach olimpico australiano Kerrison per Froome, Julien Pinot per il fratello Thibaut, Newton & Camier per Yates, Adriaan Helmantel per Dumoulin. Normale in un ciclismo dove ogni dettaglio nella preparazione conta. Ma Aru ha scelto l’ex gregario Tiralongo, supportato dal team. Nello staff di Emirates c’è uno dei massimi esperti sulla gestione della salute degli atleti nei grandi giri, Roberto Corsetti. Presente alla partenza da Israele, Corsetti è poi stato spedito al Giro di California lasciando Aru solo.
Cosa non vada nella preparazione di Fabio lo si può quindi solo ipotizzare. Di certo il sardo, al contrario di Nibali o Dumoulin, si tiene lontano da quelle classiche di un giorno che abituano il motore a girare ad altissime frequenze e la mente a gestire la tensione: anche quest’anno Aru è arrivato al Giro senza aver disputato una sola corsa in linea. Non è poi un mistero che il «dosaggio dell’altura» (quanti giorni restare in quota? Quando scendere a livello del mare prima della gara per arrivarci al top? Come allenarsi?) già delicato per tutti i corridori,
L’ultima impresa nel 2015 alla Vuelta. Poche corse in linea e le scelte discutibili
per lui è un problema ancora più importante. Ma è forse nella frase di commiato di Aru oggi («In cinque mesi sono stato a casa solo pochi giorni, tutti gli altri ad allenarmi lontano: non posso andare così piano») che vanno cercate le ragioni profonde di una crisi.
Quando Tom Dumoulin dice che «per un ciclista è molto meglio un giorno in più di allenamento a casa, assieme alla famiglia, che uno di clausura in alta montagna ad angosciarsi» dice forse una grande verità.