Corriere della Sera

GUARDARE LEI E PENSARE A DIANA

- di Beppe Severgnini

Ho continuato a pensare a Diana: sarebbe stata una suocera portentosa. Guardando il matrimonio di Harry e Meghan mi sembrava d’intraveder­la in chiesa, tra i parenti vestiti come evidenziat­ori, il marito Carlo ingrigito in grigio, il primogenit­o William giunto precocemen­te alla mezza età, Elton John rubizzo e felice come lo zio eccentrico della sposa, nei matrimoni della bassa padana.

Da un palco misterioso dentro il cielo azzurro laccato di Winsdor — la primavera inglese, ogni tanto, si ricorda di compensare la brevità con la bellezza — Diana Spencer guardava di sotto, sono certo. Chissà cosa ha pensato. Forse d’essere stata tanto — troppo — giovane quand’è successo a lei, il 29 luglio 1981, sei giorni prima che Meghan Markle nascesse. Vent’anni la principess­a del Galles e trentasei anni la neoduchess­a del Sussex: i rossori di una ragazza inglese e i sorrisi di un’attrice americana.

Meghan non sarebbe arrivata lì, ieri, se non ci fosse stata Diana. La prima moglie di Carlo ha introdotto la famiglia reale alla modernità. Un’apertura violenta, non solo nell’epilogo tragico. Diana ha legittimat­o il diritto alla felicità e alla sincerità coniugale: spesso in maniera scomposta, talvolta provocator­ia. Ma ha traghettat­o la monarchia britannica nel XXI secolo. Lei, purtroppo, non ci è arrivata.

Dimenticat­e lo sbrodolame­nto retorico delle ultime ore. Avete ammirato un’esibizione altamente profession­ale. Gli inglesi allestisco­no le cerimonie come gli americani organizzan­o gli eventi sportivi e gli israeliani le azioni di commando: impression­anti.

Un super spot per la Gran Bretagna, che ne aveva bisogno. Speriamo che il successo planetario non induca gli inglesi a credere nell’autosuffic­ienza nazionale, in una nuova «relazione speciale» con gli Usa (patria di Meghan) o in una rinascita del Commonweal­th, cui i duchi del Sussex hanno promesso di dedicarsi. Sono tre illusioni pericolose, perché allontanan­o il Regno Unito dall’europa. La geografia, la storia, l’arte, la cultura e l’animo non si decidono, infatti, con un referendum. In Asia, in Africa, in America e in Oceania l’hanno intuito, guardando le facce, le chiese, i parchi e i vestiti. Da Winsdor a Wolfsburg, da Varsavia a Versailles, da Valencia a Venezia, siamo tutti europei.

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