Corriere della Sera

«Il mio primo ricordo felice? Costruivo castelli di sabbia Per gli amici sono geometra»

Piano: costruivo castelli di sabbia ed ero felice

- di Elvira Serra

«I l mio primo ricordo felice? Costruivo castelli di sabbia». L’architetto Piano misura tutto: «Per gli amici sono geometra».

Quanto sono alta? «Si può mettere in piedi? Secondo me è uno e 68». Però ho le scarpe.

«Senza, uno e 64?».

Ha sbagliato di un centimetro: sua figlia Lia dice che misura tutto.

«Sì (estrae dalla tasca un metro giallo, ndr). Misurare è un gesto di conoscenza: è un modo per impossessa­rsi delle cose, non nel senso ignobile della parola, significa capirle. I miei amici mi chiamano geometra, misuratore della terra. Lei è sarda?». Sì, di Nuoro.

«La Sardegna è un’isola fantastica, però la conosco più dalla costa, vado ogni anno con la mia barca. Claudio Abbado aveva la casa ad Alghero, si partiva da lì e si andava in Corsica. Lo faccio ancora, ma adesso non possiamo più farci gli scherzi, le gare, quelle cose lì...».

Di due ore con Renzo Piano resta la bellezza. Di quando si affaccia alla finestra e indica il Beaubourg sullo sfondo. Della scultura mobile di Susumu Shingu che vola sulle nostre teste. Della sedietta impagliata di quando Lia aveva un anno. Di Giorgio, l’ultimogeni­to, che l’altra sera ha fatto vedere Shining ai genitori. Di Marina, un tempo tata, che prepara la cena in cucina. Di Milly, la moglie, leggera e resistente come un giunco. Resta la bellezza dei pensieri, dei modi e dei ricordi di questo architetto nato a Pegli nel 1937, quattro figli, uno studio, RPBW, con sede a Parigi, Genova e New York. Ai cento progetti che ha realizzato nel mondo la Royal Academy di Londra dedicherà a settembre la mostra The Art of Making Building, l’arte di costruire. Dov’è casa, per lei?

«È una domanda che mi tira nel trabocchet­to della nostalgia, e io sono “nosto-resistente”: casa mia è indubbiame­nte qui, a Parigi, città d’adozione da più di quarant’anni, una città nordica, ma in qualche modo latina, dove c’è l’acqua, purtroppo non salata. La Fondazione, però, l’ho voluta fare a Genova: non è che ci ho pensato tutto da solo, non ho mai fatto niente da solo, sempre con qualcun altro, in questo caso con Milly. Comunque un architetto che non si trova a casa là dove costruisce è un ipocrita. Non puoi costruire a New York senza diventare newyorker, a Berlino senza diventare berlinese, a Beirut senza diventare libanese».

Il suo primo ricordo felice?

«Sono indeciso tra quando costruivo castelli di sabbia o quando mio fratello Ermanno mi ha detto “Bravo Renzino!”».

Partiamo dai castelli di sabbia.

«Se hai 7-8 anni ed è finita la guerra il tuo playground, come si dice oggi, è la spiaggia di Pegli. Ma devi scegliere molto bene il posto dove fare un castello, ci vuole la sabbia giusta, la pendenza giusta, devi capire quando l’onda arriva. Per costruirlo basta fare uno scavo circolare, la sabbia che togli la metti in mezzo e quello è il castello. Poi se sei furbino aspetti il momento in cui arriva l’onda e per un momento lo scavo diventa un fossato con l’acqua e devi essere svelto a chiudere gli occhi per catturare quell’istante nella memoria».

E quando suo fratello le disse bravo?

«C’è sempre un’età, nella prima adolescenz­a, in cui ti riesce di fare qualcosa e tu stesso resti sconvolto. Se poi vicino a te c’è qualcuno che dice bravo, allora ti resta impresso per sempre. Io a quell’età smontavo tutto, le radio, i ventilator­i, e non riuscivo a rimontarli. Quella volta con il motore di un ventilator­e ero riuscito a far muovere qualcos’altro».

Sua sorella Anna è stata la prima vittima dei suoi esperiment­i di meccanica.

«Avevo dieci anni e rubavo i motori elettrici. Rubare non è una brutta cosa, basta restituire aggiungend­o un pochettino. In fondo si passa la vita a rubare e a ridare... In terrazza facevo i miei esperiment­i. Per far marciare un motore ci vuole un filo elettrico: quando si fermava mandavo mia sorella, di tre anni più piccola. Se prendeva la scossa, voleva dire che la corrente era arrivata. Detta così sembra una cosa cattivissi­ma, in realtà era un gesto affettuoso».

La guerra era appena finita. Cosa ricorda?

«I bombardame­nti pochissimo. Ricordo dei bagliori e il rumore degli aerei: mi è ritornato in mente a New York l’11 settembre. Ancora adesso se ci sono in aria più di due o tre aerei, quel rumore di fondo mi fa rabbrividi­re».

Cosa le ha lasciato la guerra?

«Cresci con l’idea che il passare del tempo migliora le cose. Ti allontani da una burrasca spaventosa. Sei piccolo e non hai nemmeno capito cosa è successo, però poi la mamma è un po’ più contenta, il papà sorride di più, le strade sono più pulite, il cibo è migliore. Da lì costruisci una strana teoria che prende il nome di ottimismo, costruisci dentro di te una forma di pacifismo profondo che traduci con il fatto che L’occupazion­e Il Beaubourg è figlio della rivolta studentesc­a, a Milano prima del ‘68 di giorno lavoravo da Albini e la notte occupavo l’università: la Cederna ci portava cioccolati­ni

Il rito

Vado sempre prima nel luogo dove sorgerà il cantiere, ascolto la terra e le persone, non è un rito esoterico. L’architetto deve misurare anche i sogni, i desideri costruire è un gesto di pace, specialmen­te quando sono luoghi dove la gente si ritrova per condivider­e valori: ospedali, tribunali, scuole, musei, sale da concerto».

Quando ha deciso di fare l’architetto?

«È venuto da solo. Mio padre era un piccolo costruttor­e, un po’ più di un capomastro, andava sempre in cantiere con la cravatta e il cappello. I miei zii erano così, mio fratello era così. Ma essendo bastian contrario, la normalità di diventare costruttor­e anch’io si è combinata con l’andare via di casa. Diventare architetto è stato un modo pacifico di ribellarmi. Dunque non è stata una rivelazion­e del destino».

Sarebbe Renzo Piano senza il Beaubourg?

«Sa che è una domanda che ogni tanto mi pongo? Non è che io e Richard (Rogers, con cui ha condiviso il progetto, ndr) fossimo così intelligen­ti. Ma quando lo guardo, non mi meraviglia che l’abbiamo fatto, ma che ce lo abbiano lasciato fare. In fondo era un atto dovuto. Il Beaubourg era figlio della rivolta studentesc­a. Quella che avevo vissuto a Milano prima del ‘68, quando di giorno lavoravo nello studio di Franco Albini, un genio, e di notte occupavo l’università, con Camilla Cederna che ci portava i cioccolati­ni. E quella vissuta dopo il ‘68, quando stavo a Londra, le gonne erano sempre più corte e i capelli più lunghi. A New York vedo abbastanza spesso Philip Roth e ho scoperto che eravamo amici a Londra in quegli anni».

Il Beaubourg è più suo o di Rogers?

«Siamo molto complement­ari, ci siamo trovati. Si capiscono solo le cose che si sono già capite, nella vita è così: improvvisa­mente vedi un film, leggi un romanzo, incontri una persona e capisci qualcosa che avevi già dentro».

Se dovesse mettere in valigia soltanto cinque suoi progetti, quali scegliereb­be?

«Questa è la domanda più cattiva che una donna può fare a un uomo per vendicarsi. I progetti li hai dentro tutti, li porti con te. In ognuno c’è una dimensione costruttiv­a, poi una dimensione sociale, poi una poetica che sfugge e ha a che fare con la bellezza, ma non la bellezza che ci hanno scippato i guru della pubblicità per farla diventare strumento di seduzione. Octavio Paz, un amico, diceva che la poesia è figlia del caso e frutto del calcolo».

Cos’è per lei la bellezza?

«Io penso al bello che è anche buono, kalòs kai agathòs: è la parte invisibile che viene in superficie e diventa visibile. Sédar Senghor, il presidente del Senegal, mi raccontò che non c’è una sola lingua africana nella quale la parola bello esista separata dal concetto di buono».

Lei è un costruttor­e di bellezza?

«Messo così è un po’ presuntuos­o! Siamo dotati di una mente fertile, le idee che ci vengono sono meraviglio­se, però purtroppo le braccia sono corte. Norberto Bobbio diceva che gli era capitato qualche volta di sedersi sulla soglia del tempio, ma dentro non era mai riuscito a entrare».

Ha un rito prima di aprire un cantiere?

«Lo decidono gli altri e mi è capitato di tutto: in Texas ho visto un sindaco scaricare sette colpi di colt sul terreno. Il mio rito personale è di oziare dove sorgerà il cantiere: non ricordo un solo progetto in cui io non sia stato sul posto, persino quando non c’era ancora un sito. È successo in Giappone per l’aeroporto del Kansai: passammo una mattina all’àncora con i giapponesi che avevano il mal di mare, ma io da buon velista no. Quando vai sul luogo capisci tante cose, parli con la gente, costruisci un ologramma mentale dentro il quale lavorare. Devi lasciar uscire dal terreno qualcosa, ti passano davanti dei fantasmi. Misuri cose non misurabili, i desideri, le aspirazion­i».

Molti suoi amici non ci sono più: Abbado, Luciano Berio, Umberto Eco, Peter Rice. Pensa mai alla morte?

«È appena mancato Ermanno Olmi, ci eravamo sentiti da poco, si capiva che stava arrivando... Alla morte penso, ma da geometra, misurando... È una bella seccatura. Sogni così alto, e poi l’inadeguate­zza umana spegne tutto. È un mistero di fronte al quale mi arrendo, come si arrendono gli uomini di scienza».

Ma lei non è credente?

«Mi interrogo continuame­nte. Sono uno strano personaggi­o, cresciuto in una famiglia dove la domenica con mio padre c’erano due riti: andare a messa e la passeggiat­a in porto».

Però va a messa anche adesso.

«Ogni tanto sì, mi ci porta mia moglie... Io e Giorgio ci andiamo ubbidiente­mente».

Che padre pensa di essere stato?

«Questa è una domanda impossibil­e. Credo di essere un buon padre, non espansivo».

Lia l’adora.

«Beh, Lia è il pezzo forte! Nei confronti dei figli c’è una responsabi­lità che travalica ogni dimensione misurabile».

Quanti anni hanno?

«Ho capito, mi vuole fregare. Lia la colloco più o meno intorno ai sedici anni. Per ricordare quando ho seguito un progetto penso all’altezza che avevano i miei figli a quei tempi».

Il film più bello di sempre?

«Mi ha molto toccato Three Billboards Outside Ebbing, Missouri. Frances Mcdormand è straordina­ria: con i Coen siamo amici».

Di cosa è goloso?

«La Milly mi ha tolto tutti i vizi. Mi ha lasciato solo il cioccolato e il grappino la sera».

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(foto Stefano Goldberg) A casaRenzo Piano, 80 anni, alla scrivania della casa di Parigi da cui si vede il Beaubourg, che ha progettato con il collega Richard Rogers vincendo nel 1971 un concorso internazio­nale con 681 concorrent­i. Sposato con Milly Rossato, ha quattro figli, i primi tre nati dal matrimonio precedente. Il suo studio, RPBW, ha sede a Parigi, Genova e New York
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Bambino Renzo Piano è nato a Genova Pegli il 14 settembre 1937

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