«IMPRESE FAMILIARI APRIRSI CONVIENE»
Quotazione, governance, investimenti: i temi del festival di Bologna
Lo insegna persino il Royal Wedding: meglio aprire. «La famiglia reale inglese che ha accolto la sposa americana è un’azienda familiare che si adatta ai tempi — ha detto ieri Jill Morris, dal 2016 ambasciatrice del Regno Unito in Italia, al Family Business Forum di Bologna —. È importante abbinare le tradizioni alla modernità, è il matrimonio perfetto e i consumatori se ne accorgono». In Gran Bretagna «ci sono 600 mila italiani e l’anno scorso abbiamo avuto il record di studenti italiani», ha detto Morris. Che perciò non ha dubbi: Brexit o no, «con il governo italiano la collaborazione continuerà. Lavoriamo insieme nel G7, nel G20, alla Nato, all’onu. L’italia è un partner indispensabile per il Regno Unito».
Metafora calzante per le aziende familiari italiane, strette fra la voglia di crescere e, ancora, il timore di accettare nuovi soci.
Eppure chi di loro ha scelto la Borsa fa meglio degli altri. Nei dieci anni dal 2007 al 2016 le società con almeno un quarto del capitale in mano a una famiglia e presenti sul listino hanno visto i ricavi crescere del 68%, contro il 48% delle altre imprese quotate. Superiori anche i guadagni: il rapporto fra margine operativo lordo (Ebitda) e giro d’affari è salito dal 15,7% al 15,9%, mentre quello delle altre quotate addirittura scendeva dall’8,2% al 6,9%. I dati sono quelli dell’ultimo Osservatorio Aidaf Unicredit Bocconi sulle aziende familiari italiane. La morale è che aprire il capitale porta vantaggi al conto economico.
Ma per crescere servono anche gli investitori. E lungimiranza sulla successione, creatività nell’adeguarsi al mondo che cambia, dominio delle nuove tecnologie. Con un governo alle spalle, va da sé, che supporti e ci creda.
Si è parlato di questo ieri alla seconda giornata dell’evento organizzato da Corriere della Sera, L’economia, Università Bocconi e Aidaf, in collaborazione con Axitea, Belluzzo & Partners, Fsi, EY, Ubs, Tim e Volvo.
Fra i relatori, l’imprenditore del cashmere Brunello Cucinelli e Gianmagli rio Verona, rettore della Bocconi; Barbara Lunghi, capo dei mercati primari di Borsa, e Claudio Marenzi, presidente di Confindustria Moda (sua la Herno); Alessio Rossi, presidente dei Giovani industriali, e l’economista Veronica de Romanis; la statistica sociale Linda Laura Sabbadini e Donato Iacovone, amministratore delegato di EY in Italia.
Non è un caso che il forum si sia tenuto alla Fondazione Mast, simbolo dell’apertura al territorio. La Manifattura di arti, sperimentazione, tecnologia è lo spazio con mostre e attività interattive (inaugurata in ottobre l’opera «Reach» di Anish Kapoor, un ponte di acciaio specchiato) che Isabella Seragnoli ha costruito al centro della sua Coesia, esempio di innovazione flessibile. La controllata Gd che fabbrica le macchine per impacchettare (leader mondiale) copre ormai la metà del proprio giro d’affari con i prodotti per le nuove sigarette «senza fumo». Un affare che tre anni fa quasi non c’era. Chi non si è preso il rischio di puntarci, investendo decine di milioni in ricerca e sviluppo, ci ha lasciato le penne. Coesia è al 100% di Seragnoli, che di aprire il capitale ad altri soci, per ora, non ha intenzione. Ma la tendenza è diversa.
«Le aziende familiari si stanno avvicinando alla Borsa, per gestire la crescita e il passaggio generazionale, attrarre talenti, creare valore sul lungo termine — ha detto Lunghi —. L’aim, il listino delle Pmi, ha raggiunto le cento quotate». Certo, «hanno contato anche i Pir e incentivi». Ma qualcosa sembra essere cambiato davvero. «La sfida per il 2018 non è trovare le imprese che si vogliono quotare, ma gli investitori che ci credano», nota Lunghi.
Eppure il fenomeno dell’impresa di famiglia non è più obsoleto e nemmeno solo italiano. Se in Italia le aziende familiari sono l’85% del totale (dato Aidaf), la stessa percentuale si registra in Cina. Mentre in Francia sono l’83%, in Germania il 79%, in India il 67%, dice Guido Corbetta, titolare della cattedra Aidaf-ey di Strategia delle imprese familiari in Bocconi. E nascono da imprese familiari blockbuster come la libreria Billy dell’ikea o la Golf di Volkswagen. La differenza delle aziende italiane è che sono più piccole.
È il tema dell’assenza dei campioni nazionali, caro a Maurizio Tamagnini, amministratore delegato di Fsi. Il suo nuovo Fondo strategico partecipato da Cdp è appena entrato in Adler e ha una raccolta di due miliardi (più due in arrivo) da investire nelle imprese familiari, quote di minoranza. Denari raccolti dai fondi sovrani. «Nell’automotive, nell’alimentare, nella meccanica siamo tra i grandi produttori mondiali, ma non abbiamo i capofila — ha detto Tamagnini —. Non si deve guardare al capitale di rischio come all’ultima scelta».
Secondo Corbetta «se si parte con l’apertura delle governance poi è più facile arrivare all’apertura del capitale». Ma l’importante è pianificare, visto che «aumenta la complessità delle relazioni nelle famiglie», ha detto Sabbadini.
Cucinelli, uno che l’azienda l’ha quotata (+36% in Borsa in dodici mesi) e ha due figlie, ha stabilito con un trust irreversibile le regole per quando lui non ci sarà più. «Ho messo tre saggi vicino alle ragazze per aiutarle. Ciascuna dovrà convincerli a votare per lei». Ma «serve anche pensiero critico», ha detto Iacovone. E bisogna «investire per dominare le tecnologie, imparare il linguaggio delle macchine», ha concluso Verona, che ha citato il professore del film l’attimo fuggente: «Si deve partire dall’istruzione, ma è il grande assente dai contratti di governo».