AMORI & C. UN AMARCORD MILANESE
Il romanzo di Pacchiano
Che magnifica sorpresa rivedere, dopo tanto tempo, un vecchio amico come il marchese napoletano Basilio Puoti: figura straordinaria ottocentesca, incontrato per la prima volta nelle pagine de La giovinezza di Francesco De Sanctis, al liceo classico del collegio San Michele di Acireale, l’anno prima dell’iscrizione a Lettere. Copertina marrone, edizioni Paoline. Don Antonio Corsaro — che aveva lasciato la Cattolica di Milano e il suo amico Carlo Bo per tornare in Sicilia dalla vecchia madre — ci aveva riletto l’ingresso di De Sanctis a Palazzo Bagnara, in casa Puoti: «Entrammo in una gran sala quadrata, tutta tappezzata di libri, con una lunga tavola in fondo, coverta di un tappeto verde screziato di macchie d’inchiostro. Lunghe file di sedie indicavano il gran numero di giovani, che la sera venivano ivi a prender lezione».
E proprio l’incontro con «l’ultimo dei puristi» della lingua italiana è una delle tante sorprese, fra i letterati presenti ne Gli anni facili di Giovanni Pacchiano (romanzo Bompiani, pagine 592, 17), libro nei cui gangli ci si riconosce in maniera sorprendente e nel quale, talvolta, la nostalgia prende alla gola. Puoti, ma anche Cicerone, Kant, Montale, Berto, Chesterton, Eliot, Cardarelli, Flaubert, Broch, Sereni, e così via.
Sullo sfondo, l’università Statale di Milano, anni Sessanta, facoltà di Lettere. I chiostri, le aule, i muretti dove sedersi e confabulare. Qua e là, i bagliori di fine-liceo e il batticuore dei primi esami accademici, le piccole e grandi amicizie — le vecchie, trascinate dall’infanzia, e le nuove, nate durante le lezioni o al baretto — le emozioni delle letture o l’immedesimarsi con taluni personaggi («Mi sembrava di essere un trovatore provenzale — dice Giacomo, protagonista e io narrante —: appena vista due volte prima che scomparisse, e già l’amavo. Amor de lomb, cantava Jaufré Rudel, l’amore lontano: me l’aveva fatto conoscere il mio insegnante di italiano del liceo»).
E così pure i riti goliardici, lo spauracchio dei papiri (versi sconci e disegni) stilati dagli «anziani» per le povere matricole spaesate, dietro compenso — talvolta veri e propri soprusi —, i primi sguardi seguiti da innamoramenti improvvisi (e, magari, gli abbandoni vissuti «come un lutto»), accompagnati dalle prime esperienze sessuali («l’istinto è più veloce della ragione»).
Pacchiano costruisce questo insolito romanzo con notevole sapienza. Come un regista, punta la macchina da presa su volti e situazioni che conosce bene, rese nei minimi particolari, adoperando il linguaggio reale giovanile, le espressioni idiomatiche. Si abbandonano i sogni dell’adolescenza per entrare nella vita reale. Può capitare, però, che qualcuno accomuni il sogno alle suggestioni della musica o del cinematografo (i libri comprati dopo avere visto i film o la comparazione tra compagne e attrici: quella ragazza assomiglia a Kim Novak; quell’altra, bionda, a Marilyn Monroe…).
Si comincia a sfogliare il libro con un certo timore: seicento pagine spaventano un po’. Alla fine, però, si resta quasi delusi che la narrazione finisca. Pacchiano (Milano, 1942) narra situazioni reali: per lui il mondo della scuola non ha segreti. Ha insegnato per un trentennio, ha fatto anche il preside, ha sposato un’altra docente, e così via. Ma la cosa incredibile di questo romanzo-pamphlet è che le decine di personaggi che appaiono, scompaiono, riappaiono (impossibile ricordarli tutti, così come le varie situazioni), mantengono inalterato un ritmo sincopato, un viluppo da jazz. Alla Thelonious Monk o alla Duke Ellington.