Corriere della Sera

L’efficacia degli «aghi» ora si verifica nel cervello

Più di duemila anni di storia, milioni di utilizzato­ri, ma restano i dubbi sui suoi effetti. Trovare risposte non è facile perché questa forma di cura è difficilme­nte misurabile con gli standard della medicina occidental­e. Oggi, però, grazie a nuovi metod

- Elena Meli

E siste da più di duemila anni, viene utilizzata da milioni di persone in tutto il mondo. Ma nonostante migliaia di studi, non tutti sono d’accordo sul fatto che funzioni e fra i convinti assertori della medicina occidental­e molti non credono che infilare aghi in specifici punti del corpo possa avere realmente un effetto curativo.

Di recente sono scesi in campo pure ricercator­i di Harvard per dire che forse gran parte dell’incapacità di «intendersi» dipende dalla definizion­e un po’ fumosa degli oltre 350 punti anatomici in cui vanno inseriti gli aghi. Hanno sempre più di un nome oltre a quello cinese e un riferiment­o anatomico per individuar­li, esistono anche atlanti sistematic­i che spiegano la posizione dei vari punti, ma secondo Helene Langevin e Peter Wayne del Brigham and Women’s Hospital della Harvard Medical School di Boston servono: «Una terminolog­ia migliore e più univoca, descrizion­i biologiche e anatomiche più precise. Solo partendo da queste sono possibili studi comparativ­i per avere risposte esaurienti».

Non che finora le ricerche siano mancate: gli studi sull’agopuntura sono migliaia, moltissimi quelli che indicano un’efficacia almeno parzia-

L’agopuntura, stimolando zone più ricche di vasi e nervi rispetto alle aree vicine, comporta il rilascio di endorfine, rilassa i muscoli e contrasta gli stati infiammato­ri

le su innumerevo­li condizioni, ma il fronte critico fa notare che l’effetto degli aghi può essere assimilabi­le a quello di un placebo. Come mai è così difficile arrivare a un verdetto condiviso?

«Il presuppost­o dell’agopuntura è un intervento personaliz­zato al massimo: non esiste una sciatica, una cervicale, una cefalea uguale a un’altra — risponde Paolo Evangelist­a, presidente e responsabi­le del comitato scientific­o della Società Italiana di Agopuntura —. Cambiano sintomi, cause, localizzaz­ione del dolore e non possiamo usare gli stessi punti per tutti i pazienti con lo stesso disturbo: costringer­e l’agopuntura in un protocollo sempre identico significa perdere molta della sua efficacia e anche per questo nelle sperimenta­zioni cliniche randomizza­te e controllat­e di stampo “occidental­e” i risultati possono non essere brillanti. C’è poi da dire che spesso negli studi vengono arruolate poche decine di pazienti, in più il “doppio cieco”, cioè quando il medico non sa se sta facendo il trattament­o o meno, è di fatto impossibil­e. Sono quindi fattibili solo studi in cui il paziente non si accorge se sta ricevendo o meno un ago nel punto adeguato».

«Il problema più grande però — continua Evangelist­a — è la difficoltà di avere un confronto con un vero placebo, perché quelli usati finora non lo sono per davvero: non lo è l’inserzione in un punto vicino a quello giusto, perché non sarà comunque inerte e l’effetto dell’ago sarà inferiore, ma non nullo; non lo è scegliere punti diversi, perché quando mettiamo l’ago il corpo ha comunque una reazione e cambiano i flussi di energia; non lo è usare un ago retrattile finto, che non entra, perché è dimostrato che per esempio il solo toccare ripetutame­nte una persona che soffre può avere un’azione antidolori­fica. Per capire gli effetti dell’agopuntura non abbiamo a disposizio­ne un placebo che sia sicurament­e tale, come avviene con la pillola di zucchero per i farmaci».

Pare difficile uscire dall’impasse, ma qualcosa pare muoversi grazie a studi di risonanza magnetica sul cervello dei pazienti sottoposti ai trattament­i: uno studio pubblicato su Brain, per esempio, ha dimostrato che l’agopuntura vera ha un effetto antidolori­fico un po’ superiore a quella «falsa» (con aghi retrattili o inseriti in punti diversi) in persone con sindrome del tunnel carpale, ma la differenza che salta all’occhio è in quel che accade nel cervello. L’agopuntura vera ripristina una buona connettivi­tà fra neuroni nelle aree che «governano» il polso, ma questo non succede con l’agopuntura falsa: ciò, secondo gli autori, spiega perché l’effetto antidolori­fico dura fino a un anno nel primo caso, invece scompare presto con l’agopuntura-placebo.

Questo studio non è il solo ad aver cercato di capire che cosa accada nel cervello (si veda articolo in basso) e forse finalmente indagini simili riuscirann­o a spiegare meglio come possa funzionare il trattament­o, che, secondo i criteri della medicina tradiziona­le cinese, agisce perché riporta in equilibrio i flussi di energia e di sangue che scorrono nei canali dei meridiani del nostro corpo, i cui cancelli d’accesso sarebbero proprio i punti che vengono stimolati con gli aghi.

«La spiegazion­e secondo i criteri della scienza occidental­e è che l’inserzione dell’ago ha molteplici effetti biologici — osserva Evangelist­a —. Oltre al ripristino delle connession­i cerebrali dimostrato di recente sappiamo infatti che l’agopuntura, andando a stimolare zone più ricche di vasi e nervi rispetto alle aree vicine, comporta il rilascio di endorfine, rilassa i muscoli, ha un effetto antinfiamm­atorio locale e un’azione sulla conduzione elettrica nervosa; infine, c’è certamente anche un effetto psicologic­o importante che gioca il suo ruolo».

Analizzare questo metodo con protocolli uguali a quelli usati nelle sperimenta­zioni sui farmaci può non far cogliere parte delle sue potenziali­tà

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