Corriere della Sera

Quando le madri lavavano le camicie ai figli terroristi

Gian Paolo Sechi Il generale dei carabinier­i che convinse Peci a pentirsi «Dalla Chiesa creò la squadra di 007. Ci disse: scoprite cosa sono le Br»

- di Stefano Lorenzetto

Patrizio Peci vive ancora in Italia? «Adesso glielo chiediamo». Gian Paolo Sechi compone un numero. «Ué, Zampa, come stai?». Anche se tiene il cellulare attaccato all’orecchio, si riesce a percepire l’interlocut­ore che esordisce con un «oooh» di raggiante sorpresa, prim’ancora di sentirsi porre la domanda e di rispondere: «Normale, normale». L’ex terrorista ha visto comparire sul display il cognome del chiamante e tanto gli è bastato.

Sì, Patrizio Peci, il primo pentito delle Brigate rosse, quello a cui per ritorsione uccisero il fratello Roberto, vive ancora in Italia. Il sicario che partecipò all’omicidio del vicedirett­ore della Stampa Carlo Casalegno, che gambizzò dirigenti della Fiat e consiglier­i comunali della Dc, che pedinò il giornalist­a Ezio Mauro progettand­o di sparargli, ha una moglie, è diventato padre e ha trovato un lavoro. Sechi lo convinse a collaborar­e, lo nascose per due anni in una caserma, gli fornì una nuova identità. Oggi è l’unico a tenere i contatti con lui. «Prima o poi ci vediamo, ragazzo», lo congeda affettuoso.

Li ha persuasi tutti così, con la forza dell’empatia. Per alcuni, come Marco Donat Cattin, figlio del ministro dc, al quale fece ripudiare Prima linea, diventò un secondo padre. Per altri, come Silvano Girotto, detto Frate Mitra, l’ex francescan­o infiltrato nelle Br che fece catturare Renato Curcio e Alberto Franceschi­ni, fu un interlocut­ore di estrema finezza intellettu­ale.

Generale di corpo d’armata dei carabinier­i, laureato in scienze strategich­e, per anni Sechi ha pagato a Torino l’affitto di un appartamen­to dove la sera non poteva rincasare. «Mia moglie stava dai suoi genitori e i figli dovetti mandarli a vivere a Bardonecch­ia», dice. Precauzion­i indispensa­bili dopo che ebbe fra le mani un documento delle Br intitolato «Mai più senza fucile», in cui si segnalava che lo avevano «notato parecchie volte a Lugano, dove probabilme­nte nasconde Girotto o si incontra con lui».

Sechi è stato un agente segreto del Sisde, il Servizio per le informazio­ni e la sicurezza democratic­a. Se oggi ha deciso di mostrare il suo volto, è perché s’è stufato di leggere libri di ex alti ufficiali dell’arma, ma anche di semplici maresciall­i, uno dei quali uscito di recente, «che raccontano un sacco di balle».

Lei faceva parte del Nucleo speciale antiterror­ismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, giusto?

«Si chiamava Nucleo speciale di polizia giudiziari­a. Nacque nel maggio 1974, con l’aiuto del comunista Ugo Pecchioli, ministro ombra degli Interni, dopo che ad aprile era stato rapito a Genova il magistrato Mario Sossi. Il generale ci scelse a uno a uno. Eravamo 40, alla fine restammo in 30. “Dovete scoprire che cosa sono le Br, non trovare Sossi”, ci spronava. Di Dalla Chiesa non ne sono più nati».

Perché la reclutò?

«L’anno prima avevo indagato sul rapimento di Tony Carello, figlio dell’imprendito­re dei fari per auto, giungendo a una conclusion­e avversata da tutti, anche dall’arma e dalla polizia».

Quale?

«Che i sequestri di persona venivano compiuti dalle Br per acquistare gli appartamen­ti da trasformar­e in covi. Piazzammo finte dattilogra­fe negli alloggi soprastant­i. Il generale era un creativo. Abolì i confini. Tenevo i rapporti con Scotland Yard a Londra, Renseignem­ents généraux a Parigi, Bundeskrim­inalamt a Wiesbaden. Andavo a scegliere i più svegli nella scuola per sottuffici­ali di Firenze. Non li volevo né sposati né fidanzati. Gli fornivo documenti falsi. Indossavan­o l’eskimo, diventavan­o capelloni, giravano in Ciao, frequentav­ano le università, andavano a fare gli operai alla catena di montaggio di Mirafiori. Mi meraviglio che non ci abbiano sbattuti tutti in galera».

In che senso?

«Pedinavamo i brigatisti con la speranza di catturare i loro capi. Invece sarebbe stato nostro dovere arrestarli. Perciò quando leggo di trattativa fra Stato e mafia, vorrei che un giureconsu­lto mi spiegasse chi rappresent­ava lo Stato nel rapporto con Cosa nostra».

Il generale Mario Mori, hanno risposto i giudici di Palermo.

«Ma Mori poteva fare un decreto per alleggerir­e il carcere duro ai boss? No. Al massimo poteva indicare allo Stato una via per scongiurar­e altre stragi mafiose. E non fu così che la legge sui pentiti consentì di sgominare le Br, garantendo ai dissociati protezione e sconti di pena? A un certo punto Dalla Chiesa ci ordinò: “Basta inviare rapporti ai magistrati”».

Che cos’era accaduto?

«Le Br ci avevano schedati tutti, non so se mi spiego».

Si spiega benissimo.

«Solo il procurator­e generale Carlo Reviglio della Venaria e il suo sostituto Bruno Caccia, che poi fu ucciso dalla ’ndrangheta, dissero: “È la strada giusta, lasciamoli fare”. Avevamo tutti contro».

Non Gian Carlo Caselli.

«Un amico intelligen­te. Ma all’inizio era ideologizz­ato anche lui. Quando Maria Teresa Ropoli, allora compagna di Peci, scrisse “Viva le Br” sui muri della Singer di Leinì, non fece nulla. Fui io a spiegargli che cos’erano le Brigate rosse».

Che cos’erano?

«Le racconto un episodio. Nel 1975 pediniamo alcuni personaggi che vanno a rubare granate anticarro in un deposito dell’esercito svizzero e le portano a Roma. Dalla Chiesa lo riferisce al ministero dell’interno. Nessuno gli crede. Poco dopo ci chiama Girotto, il nostro infiltrato, per avvisarci che fra le Br circola la notizia dell’imminente arresto dei compagni

Eravamo 40, alla fine solo in 30 Si girava tra gli operai con capelli lunghi ed eskimo. I brigatisti? Coccolati dalla società bene

autori del blitz in terra elvetica».

Girotto lo faceva per soldi?

«Non abbiamo mai pagato nessuno. Frate Mitra era talmente affidabile che i brigatisti chiesero proprio a lui di smascherar­e eventuali agenti provocator­i al loro interno».

Allora perché collaborav­a?

«Per ragioni etiche. Era stato un missionari­o vero in Bolivia. Poi aveva scelto la lotta armata contro i dittatori. Ma si offendeva se gli davi dell’ex terrorista. Sulle Br s’era fatto un’idea precisa: “Non rispettano la democrazia”. Tanto bastò per convincerl­o a combatterl­e. Il metodo di Dalla Chiesa era questo. Il generale stette per ore da solo a parlare con Peci. Non gli chiese di pentirsi. Gli dimostrò che quelli da lui ritenuti criminali e mascalzoni, cioè noi, eravamo invece gli unici a essergli umanamente vicini».

Dove vive adesso Girotto?

«Si nasconde. Come facevo anch’io prima di conoscere lei».

Come arrivaste a Donat Cattin?

«Uno dei nostri, Trucido, lo pedinava. Quando vide che a Torino prendeva un treno diretto a Parigi, salì in carrozza con lui. Allora non c’erano i cellulari. Il collega passò un pizzino ai carabinier­i che controllav­ano i passaporti al confine. Ricevetti una telefonata dall’arma di Bardonecch­ia: “Lei è Boss? Trucido mi ha detto di riferirle che sta andando a Parigi”. Per prelevare Donat Cattin dopo l’arresto nella capitale francese, la presidenza della Repubblica mise a disposizio­ne un aereo con tanto di salotto ristorante, che atterrò a Ghedi per imbarcarmi».

Un eversore da top class.

«Ricevetti pressioni che lei non può neppure immaginare affinché gli riservassi un trattament­o di favore. E io a spiegare: non collabora, perché dovrei usare i guanti bianchi?».

Ricevette pressioni da chi?

«Anche da chi comandava a Torino».

A Torino comandava la Fiat.

«Senta, parliamoci chiaro: le Br erano un’ideologia di sistema. Alle spalle avevano grandi imprendito­ri che pensavano di mantenere il potere anche con la dittatura del proletaria­to. I brigatisti erano coccolati dalla Torino bene. Forse Marco fu l’unico della famiglia Donat Cattin a non essere terrorista».

Stento a seguirla.

«Mentre era in clandestin­ità, la madre Amelia ogni settimana gli portava il cambio della biancheria. Le pare normale? Mi sarei aspettato che suo padre Carlo, all’epoca ministro dell’industria, lo facesse arrestare, ma così non fu. Magari con un papà diverso avrebbe potuto essere un figlio diverso. Io gli volevo bene. Mi dispiacque molto quando, nel giugno di 30 anni fa, ormai dissociato, morì arso vivo in un incidente stradale sulla A4 a Verona».

Dopo 416 giorni sciolto. Perché? il vostro nucleo fu

«Dalla Chiesa diceva no a ministri, prefetti, magistrati. Una parte dell’arma lo odiava. Ne inventaron­o di tutti i colori per screditarl­o. I politici, spaventati, lo richiamaro­no solo dopo il rapimento di Aldo Moro».

Chi volle la sua morte?

«Nessuno. Tutti. Scriva entrambe le cose, così non sbaglia. Dalla Chiesa era l’incarnazio­ne dello Stato di diritto efficiente. Mi chiese che cosa pensassi del suo nuovo incarico di prefetto a Palermo. Gli risposi: non lo deve accettare, generale, la lasceranno solo, non le daranno i decreti speciali che le hanno promesso contro la mafia. Ma era un combattent­e e non voleva morire di vecchiaia».

Lei ha avuto qualche riconoscim­ento?

«Sì, mi vuole bene mia moglie Anna Maria. Per sposarla, nel 1967, dovetti aspettare sette mesi prima che il capo dello Stato desse il suo assenso».

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(Foto Daniela Pellegrini) Al processo Patrizio Peci in aula come testimone al processo di Torino contro le Br nel 1983. Nel tondo, in basso, il generale Gian Paolo Sechi
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