Il cuore dell’uzbekistan
Da Khiva e Samarcanda alla capitale Tashkent: il nostro viaggio al centro dell’asia
«Vivere nel cortile squadrato di una madrasa di Samarcanda, un sogno che si realizza… qualche migliore ricompensa per il viaggiatore avventuratosi fin qui?», scriveva Ella Maillart. Nata a Ginevra nel 1903, negli anni Trenta si era spinta in Asia Centrale, dove i costumi tradizionali si scontravano con la modernizzazione imposta dal governo centrale dell’unione Sovietica. Animata da un interesse per la gente comune, Ella ne osservava le condizioni di vita e di lavoro, entrava nelle case e nelle fabbriche, incontrava i prigionieri politici, spiava i primi inizi di emancipazione femminile.
Se la città imperiale di Samarcanda è ai limiti delle geografie, altrettanto si può dire di Bukhara che in passato è stato luogo santo, precluso ai non musulmani. In entrambi i casi, passato e presente sono aggrovigliati. La prima volta che giunsi a Bukhara era l’estate 2002, in borsa avevo Vagabonda nel Turkestan, il diario della Maillart. Scesi dall’aereo, certa di essere arrivata in un luogo ai confini del mondo. Ad attendermi c’era Parvin, sorridente. In taxi mi sorprese sentire, sulle frequenze di una radio locale, il brano Rosso relativo di Tiziano Ferro che fino a qualche giorno prima aveva animato le mie serate in Liguria. Nel mio immaginario, la globalizzazione è quel rosso relativo senza macchia d’amore .... dall’altra parte del pianeta.
Trentacinque anni, Parvin faceva la cantante come il marito che aveva trovato lavoro a Mosca ma da 4 mesi non dava notizie né mandava denaro. Viveva con i figli di 4 e 7 anni in casa dei suoceri, erano ospitali e avevano una bella casa su due piani. Il bagno era però in cortile, se ne avevi bisogno la notte dovevi farti largo tra due mucche. Dopo qualche giorno, accettai l’invito di altri conoscenti. Fu con Amal, 18 anni, che capii come i giovani trovano moglie: «Chiediamo esplicitamente se la ragazza è vergine, se non lo è lasciamo perdere». Tra un’occidentale e una del luogo, «meglio una di noi, sa fin da subito che dovrà aiutare mia madre in casa, da una straniera non potrei pretendere tanto».
Era stato lui, il giovane Amal, ad accompagnarmi nel mausoleo della confraternita sufi Naqshbandi, una dozzina di chilometri fuori Bukhara, per incontrare l’imam. Un aspetto importante, quello religioso, su cui ci soffermeremo più volte nel corso del nostro viaggio nella repubblica dell’uzbekistan, dove le moschee sono state riaperte dopo l’indipendenza nel 1991. Poco per volta, gli uzbeki hanno ricominciato ad avvicinarsi al mi- sticismo dell’islam, da cui erano stati allontanati dai sovietici con l’eccezione proprio di Bukhara, dove negli ordini sufi si erano infiltrati gli agenti del KGB. Il sufismo è stato poi sdoganato dopo l’11 settembre, quando il presidente uzbeko si recò negli Stati Uniti per incontrare il leader dei Naqshbandi: aveva compreso che il sufismo può essere un valido strumento per contrastare l’integralismo e il terrorismo di matrice wahhabita.
Se deciderete di viaggiare con noi, non dovrete farvi largo tra le mucche in cortile: saremo alloggiati in confortevoli strutture alberghiere. Visiteremo Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent, Shakhrisabz: luoghi legati alla Via della Sera, l’antica rotta commerciale che collegava la Cina al Mar Mediterraneo. In prima battuta, ci soffermeremo sulla situazione storica, politica, religiosa ed economica di questa repubblica ex sovietica nel cuore dell’asia centrale. Un partner commerciale per le grandi potenze, in primis Pechino e Mosca, ma appetibile anche per l’europa. A voler investire è pure il presidente turco Erdogan che a Tashkent ha recentemente trascorso alcuni giorni. Senza dimenticare il rispetto dei diritti umani, su cui insiste la Casa Bianca.
Nella capitale Tashkent incontreremo la giornalista Matluba, già corrispondente dell’emittente britannica BBC in tagico, una variante orientale del persiano ancora oggi diffuso a Bukhara e Samarcanda. Entreremo nelle moschee e nei mausolei, ammireremo i capolavori dell’architettura islamica, andremo a zonzo per i bazar. Nei campi attorno a noi i contadini raccoglieranno il cotone, gli steli delle piante saranno secchi e senza foglie. Il cotone: speranza e maledizione dell’intero paese. «I russi ne avevano introdotte alcune specie americane, i sovietici ne accelerarono la produzione aumentando il rendimento: divennero i maggiori produttori di cotone del mondo, Mosca lo acquistava grezzo e a basso prezzo per trasformalo in capi di vestiario». Così scrive Colin Thubron nel diario Il cuore perduto dell’asia.
Parleremo di tanti argomenti, perché per decifrare l’asia Centrale servono la storia, la geografia, l’economia, la religione, la letteratura. Sarà un’esperienza unica perché, come scrisse il poeta persiano Omar Khayyam, «viaggiare è vivere due volte».