LE VENE D’AMERICA
L’appuntamento Torna il Ravenna Festival, con un omaggio alla cultura statunitense e al «sogno» di Martin Luther King Una musica autonoma proprio perché ascolta le sue tante radici GERSHWIN E COPLAND, DUE VOCI DIVERSE MA UNITE DA UN’IDENTITÀ IN CONTINUA T
P arlare di musica americana è come spalancare una finestra e trovarsi di fronte, di colpo, un panorama sterminato, variegatissimo, con lo skyline di New York nello stesso quadro visivo del Grand Canyon, dei deserti, delle colline del Vermont, dei ghiacci dell’alaska. Prima di mettere a fuoco qualcosa si è presi dalla vertigine.
Eppure ci sarà una chiave che permetta di riconoscere l’impalcatura nascosta, l’ossatura strutturata che regge il tutto. Da dove muovere per scoprirla? Io partirei da due composizioni paradigmatiche, che verranno eseguite nel programma di Ravenna Festival. Una è di Gershwin, Un americano a Parigi (1928); l’altra è di Copland, Ritratto di Lincoln (1942). Sono diversissime nelle intenzioni, nel lessico, nello stile. La partitura di Gershwin è scintillante, vitalissima, colma di ironia: la luce che vi si sprigiona è quella delle grandi metropoli del Novecento, caotiche, brulicanti, percorse dal rumore della vita.
La partitura di Copland è augusta, olimpica, non si misura col tempo presente ma con la Storia: la luce che la bagna è vastissima, l’aria rarefatta; le passioni umane vi sono evocate per sublimarsi in una celebrazione solenne. E il linguaggio non potrebbe essere più diverso: Gershwin attinge da un lato al pensiero melodico tardo-romantico, dall’altro lo corregge con il jazz e con un colorismo brillantissimo; Copland recupera la melodia folk e l’eco degli innarî protestanti: la sua America evoca quella del quadro di Grant Wood, un’autentica icona novecentesca, American Gothic.
Che cosa hanno in comune queste due opere così differenti? Qui ci avviciniamo al nodo critico. Tutti e due, Gershwin e Copland, celebrano l’identità americana, che è multiforme in superficie ma è una sola nel profondo. Il ricorso al jazz di Gershwin e quello a Springfield Mountain, la ballata del 1840 utilizzata da Copland, sono due versanti di un unico processo, il succhiare le linfe native di un’identità, si estraggano dalla musica afro-americana di New Orleans o dai canti del New England: e questa identità ha la forma, il colore e l’orgoglio fortissimo della bandiera a stelle e strisce. In questo senso, l’anonimo yankee a Parigi di Gershwin e il presidente Lincoln di Copland sono la stessa persona, la stessa figura simbolica.
È proprio di una civiltà musicale giovane — e quella americana è giovanissima, ha un secolo e mezzo di vita — da un lato misurarsi con le influenze più diverse (di volta in volta i compositori americani le hanno fatte proprie tutte, senza limitarsi alla musica europea ma attingendo a un melting pot sonoro che rispecchia quello etnico della repubblica federale), dall’altro dichiarare la propria fisionomia, esporre le radici autoctone o percepite come tali.
Ed è un gesto, da parte di Gershwin (che lo maschera
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In Europa la musica è sempre più una torre d’avorio o un asettico laboratorio linguistico, in America è invece qualcosa che entra direttamente nella storia delle idee
con leggerezza), di Copland (che lo esplicita), di tanti altri compositori che hanno agito nello stesso modo, che non riguarda solo lo stile musicale: è un gesto simbolico, ideologico, politico nel senso più nobile.
Laddove in Europa la musica è sempre più una torre d’avorio o un asettico laboratorio linguistico, in America è invece qualcosa che entra direttamente nella storia delle idee, che agisce nel dibattito sui valori. La correlazione tra il tema ideologico-politico e la formazione di un lessico musicale è strettissima e inevitabile, coinvolge personalità diversissime tra loro come Ferde Grofé, Virgil Thomson, Ned Rorem, il John Adams di «Nixon in China».
L’impatto di ideologia e musica (impatto che nasce da duplice e speculare spinta) ha una forza che dice quanto il comporre, in America, sia qualcosa di strettamente avvinto al tempo e alla storia. Per questo è profondamente giusto collegare la personalità e il legato ideale di un grande americano, Martin Luther King, con un Festival artistico: perché il piano del dibattito è lo stesso, e la frase «We have a dream» è stata pronunciata in musica centinaia di volte, sotto le svariate spoglie di una miriade di stili. Per nessun’altra civiltà musicale può dirsi tanto.
Infine, tra tante proposte nel cartellone piace segnalare il gioiello, finalmente accolto in una sede «nobile», di Kiss Me, Kate. La partitura di Cole Porter non è una commedia musicale leggera: è un prodigio di intelligenza e cesellatura, un mirabile ingranaggio di scatole teatrali concentriche e un esempio di rapporto tra suono e parola tra i più perfetti che abbia offerto il Novecento.