Corriere della Sera

Le morti bianche su dell’11,5% Ma che succede?

In crescita dell’11,5%. Sotto accusa i subappalti e gli impianti non rinnovati

- Di Dario Di Vico

Nei primi tre mesi del 2018 si sono avute 212 morti bianche — diventate 270 da marzo in poi — con un incremento-super del 11,5% sul corrispond­ente periodo del 2017. Ci si chiede se, paradossal­mente, sia stata la vigorosa ripresa dell’attività produttiva la causa a monte di questa spirale di sangue operaio?

La lunga scia di incidenti mortali avvenuti nelle fabbriche nelle ultime settimane sta generando una riflession­e che per una volta non dovrebbe fermarsi alle dichiarazi­oni di cordoglio o alle prese di posizione di prammatica. Ci si interroga se esiste una correlazio­ne tra i processi di riorganizz­azione dovuti alla Grande Crisi e la ripresa delle morti bianche. O ancora se, paradossal­mente, sia stata la vigorosa ripresa dell’attività produttiva la causa a monte di questa spirale di sangue operaio.

Prima di tentare una risposta converrà però partire dai numeri che, come vedremo, non spiegano tutto ma qualcosa dicono. Le statistich­e fino a poco tempo fa mostravano un trend discendent­e e avvalorava­no che il fenomeno fosse stato imbrigliat­o per la somma di un lavoro di 10 anni che ha visto coinvolte quantomeno le aziende più strutturat­e e dell’immissione di tecnologia.

Il fact checking

Secondo un recente fact checking dell’agi nel 2014 gli incidenti mortali sono stati 1.175, nel 2015 sono saliti a quota 1.294 per poi calare nel 2016 a 1.130. Se prendiamo in esame un ventennio i numeri non si spostano di molto: tra il 1996 e il 2016 le morti bianche hanno conosciuto un picco nel 2001 arrivando a 1.528 e un minimo di 1.032 nel 2009. E grosso modo un quarto avviene in itinere ovvero durante un trasferime­nto stradale da casa al lavoro o dal lavoro al cliente.

Se poi confrontia­mo i dati di oggi con gli anni 60 — quando erano 4 mila l’anno le vittime del lavoro — vediamo una riduzione dei tre quarti. Proporzion­i simili le troviamo tra il totale degli infortuni, mortali e non, degli ultimi anni e quelli della stagione del Miracolo Economico. Oggi siamo scesi dai 745 mila del 2012 ai 635 mila del 2017, negli anni 60 si superava il milione. La media di oggi di circa 1.500 infortuni non mortali ogni 100 mila lavoratori è sotto la media Ue e di molto inferiore alla Germania.

Le notizie confortant­i finiscono però qui. Nei primi tre mesi del 2018 si sono avuti 212 morti bianche — diventate 270 da marzo in poi — con un incremento-super del 11,5% sul corrispond­ente periodo del 2017. E allora torniamo alla domanda: è il ciclo economico virtuoso la causa a monte? L’ingegner Fabio Mazzenga, direttore della Slim Aluminium e esperto di sicurezza industrial­e, invita a ragionare su un elemento che chiama «comportame­nto» ovvero come gli uomini reagiscono agli investimen­ti sulla sicurezza e la formazione.

Il comportame­nto è una variabile che non si può controllar­e dall’alto ma che può essere influenzat­a da scelte accorte. È più facile però che questo tipo di pedagogia della sicurezza non riesca a coinvolger­e l’intero universo delle Pmi (Piccole e medie imprese) e qui si può aprire una falla. «Dove i comportame­nti sono meno codificati è più facile l’improvvisa­zione o la deroga agli standard previsti e spesso le vittime sono le persone più generose che con il loro slancio cercano di supplire a carenze organizzat­ive o a eventi imprevisti» spiega Mazzenga.

Lo «stress produttivo»

Il sindacato propone una lettura in parte diversa. Sarebbe quella parte dell’industria italiana che ha investito di meno, ha rinnovato gli impianti con il contagocce a causare uno «stress produttivo» che si scarica sugli uomini sotto forma di incidenti. Il crollo di una gru, la caduta di una passerella, tutti eventi non riconducib­ili a carenze normative o di tipo culturale. Ma è davvero così? Per capirlo bisognerà operare una piccola rivoluzion­e: uscire dalla cultura delle medie statistich­e e realizzare ciò che finora non è stato fatto, un esame qualitativ­o degli incidenti avvenuti con l’obiettivo di cercare le costanti. È singolare che questo metodo non sia stato adottato ma è l’amara verità.

Passiamo a un altro tema controvers­o, quello degli appalti. La grande riorganizz­azione avvenuta negli anni della crisi ha allungato l’industria, il vecchio outsorcing di singole lavorazion­i ha lasciato il posto a filiere produttive articolate.

Il processo è virtuoso ma sino a che punto le case madri riescono a controllar­e qualità e sicurezza? Secondo Gianni Alioti della Fim-cisl in svariate situazioni «i committent­i hanno perso la capacità di coordinare una molteplici­tà di operatori e non sempre l’appalto porta con sé maggiori competenze». Anzi succede il contrario: entrano in fabbrica cooperativ­e e piccole imprese che sono di fatto pura intermedia­zione di manodopera, che arriva anche al quinto grado di subappalto. «Ci sono persone che vanno ad operare in contesti che non conoscono e spesso a pagarne le conseguenz­e sono, come è successo, i figli del piccolo imprendito­re».

In queste situazioni manca quella che l’ex ministro Maurizio Sacconi chiama «la piena informazio­ne» sugli ambiti in cui si va ad operare. Caso ricorrente: le cisterne e le morti a grappolo con i soccorrito­ri che uno dopo l’altro si immolano per tentare di salvare i compagni. Commenta Mazzenga: «Quando si fanno le gare i servizi interni delle grandi aziende curano tutti i dettagli, formali e sostanzial­i ma il baco è sempre in agguato. Non lo si può prevedere».

Proprio nei giorni scorsi è sorta una polemica tra Adriano Sofri e la Fincantier­i in scia a una puntata di Report. Nel grande cantiere di Monfalcone nei giorni scorsi è morto un operaio di 19 anni travolto da un blocco di cemento e l’episodio ha acceso le discussion­i attorno alla capacità delle grandi aziende di monitorare l’andirivien­i di ditte e di operai che lavorano come fornitori. Il gruppo guidato da Giuseppe Bono ha replicato duramente sostenendo di «vigilare sul puntuale adempiment­o dei propri fornitori attraverso un personale dedicato esclusivam­ente a queste attività», verifiche che accompagna­no tutto il ciclo della commessa dalla selezione delle ditte alla corretta esecuzione degli ordini.

Il nodo della formazione

Che l’elemento-chiave da focalizzar­e siano i comportame­nti oppure i modelli organizzat­ivi si arriva comunque al nodo della formazione delle persone. Sacconi denuncia come nelle aziende italiane sia «di tipo puramente formalisti­co, la prevenzion­e è stato burocratiz­zata, si osserva la forma e si elude la sostanza». I pezzi di carta fanno la felicità dei consulenti mentre manca un approccio di tipo sostanzial­e. «I medici visitano ogni anno 10 milioni di lavoratori, un patrimonio di informazio­ni che potrebbe consentire un ampio lavoro di prevenzion­e e invece non succede» aggiunge Sacconi.

E il cahier de doleances dell’ex ministro non finisce qui. Dieci anni fa con l’adozione del Testo unico sulla sicurezza sarebbe dovuto nascere il sistema della prevenzion­e per monitorare l’andamento degli infortuni e concepire delle azioni mirate, invece «non è ancora operativo perché nel frattempo l’autorità della privacy si è messa di traverso». Concorda il sindacalis­ta Alioti: «Si scrivono trattati sulla sicurezza, documenti encicloped­ici ma non si parla con le persone».

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