Corriere della Sera

La nonna trafficant­e (o raggirata?) che la Malaysia condanna a morte

Una casalinga di Sydney processata a Kuala Lumpur per un chilo e mezzo di «ice»

- Di Marta Serafini

«M i faceva sentire desiderata, non pensavo fosse un raggiro». Parole di una donna ingenua o di una pericolosa trafficant­e di droga?

La storia di Maria Elvira Pinto, 54 anni, inizia nel 2012, quando conosce in Rete un uomo. Lui dice di essere il capitano Daniel Smith, un militare delle Special Forces statuniten­si di stanza in Afghanista­n. Lei è una casalinga di Sydney, madre di quattro figli e nonna di un nipotino. Lui la riempie di poesie, frasi dolci. Chat, messaggi, messaggini, le scrive più volte al giorno.

Tutto fila liscio fino al settembre 2013, quando il «capitano» Smith passa all’azione e chiede a Maria Elvira di sposarlo. Lei accetta, il rapporto con il marito sta peggiorand­o e Smith sembra essere l’uomo perfetto. Prima delle nozze però, lui le propone di incontrars­i a Shanghai.

All’arrivo nella città cinese del capitano non c’è traccia. Al suo posto, Maria trova un tizio che le chiede di portare a Melbourne una valigia «piena di vestiti». Nella borsa, in realtà, c’è un chilo e mezzo di «ice», come viene chiamata in gergo la metanfetam­ina resa celebre dalla serie tv Breaking Bad. Quando la donna fa scalo a Kuala Lumpur, «è scossa e La versione

● Maria Elvira Pinto, 54 anni, conosce online un uomo, che le chiede di incontrars­i a Shanghai

● Arrivata nella città cinese, la donna trova un uomo che le chiede di portare indietro una valigia di vestiti. Nella borsa ici sono 1,5 chili di metanfetam­ina

● A Kuala Lumpur la donna viene arrestata

● Nel dicembre 2017 viene assolta in primo grado ma giovedì scorso è stata condannata a morte Maria Elvira Pinto Exposto a Kuala Lumpur. Giovedì scorso la donna è stata condannata all’impiccagio­ne

sconvolta», come racconterà il suo avvocato Tania Scivetti. Nonostante il suo viaggio non sia finito, erroneamen­te effettua i controlli per uscire dall’aeroporto, offrendosi lei stessa di passare la valigia ai raggi.

Ed è a quel punto che i sogni di Maria si infrangono mentre le mettono le manette ai polsi in Malaysia, un Paese musulmano che dal 1983 prevede l’impiccagio­ne per chi è in possesso di stupefacen­ti.

In primo grado il giudice (Reuters)

l’assolve. La donna è stata «raggirata», sarà il verdetto nel dicembre 2017. «Sono felice di essere libera», dirà lei alla stampa. La corte però non le permette di lasciare il Paese fino al secondo grado. In Malaysia non sono pochi i casi di condannati a morte per droga. E non sono pochi nemmeno gli australian­i finiti sul patibolo. Come Kevin Barlow e Brian Chambers di Perth giustiziat­i nel 1986 per traffico d’eroina. O come il barman di Sydney Michael Mcauliffe, impiccato dopo 8 anni di cella per una dose. Donne, però, nella lista di morte non se ne erano mai viste. Inoltre nel 2017 la Malaysia, dopo le critiche dell’australia e dell’unione Europea, si è impegnata ad abolire la pena di morte per i reati di droga. A giocare a favore di Maria, poi il caso di un altro australian­o, Dominic Bird graziato nel 2013, nonostante fosse in possesso di 167 grammi di metanfetam­ina.

Illusioni. Giovedì scorso la donna è stata condannata a morte in secondo grado. Niente attenuanti, niente ingenuità. Secondo la Malaysia Maria Evira Pinto Exposto è una narcotraff­icante. A darle forza ora è rimasta solo la speranza dell’appello.

In attesa di sapere se la nonna di Sydney potrà tornare da

Gli appelli

Dopo le critiche la Malaysia si è impegnata ad abolire la pena capitale

nipote e figli, la stampa australian­a ha interpella­to vari esperti. Maria non è certo l’unica tra le «mule», le corriere della droga che a volte inconsapev­olmente trasportan­o stupefacen­ti. È capitato l’anno scorso anche a Laura Plummer, 33 anni, britannica, arrestata con 290 pasticche di tramadolo mentre andava in Egitto a trovare il «marito» e condannata a tre anni. Ed è successo, secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2016, nell’11 per cento degli arresti nel mondo.

«Le donne sono sottoposte a meno controlli degli uomini, per questo i trafficant­i le reclutano», ha spiegato Vanda Felbab Brown del Brookings Institutio­n, think tank statuniten­se. Ma non solo. Jennifer Fleetwood, autrice di «Drug Mules: Women in Internatio­nal Cocaine Trade», saggio dedicato al tema, ha scoperto che spesso le donne vengono usate come esche per le guardie. Così mentre le mule vengono arrestate, un uomo con un carico molto più grande passa indisturba­to.

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Alla sbarra

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