Corriere della Sera

Kerry Kennedy: «È tempo di allineare etica ed economia»

La figlia di Robert ospite del festival Circonomia «Bisogna ripartire dal discorso sul Pil di mio padre»

- Francesca Basso

MILANO «La crisi ha messo in ginocchio gli Usa e il mondo occidental­e, ma il populismo non è la soluzione, né negli Stati Uniti né in Italia. Occorre recuperare l’etica. Occorre allineare i valori umani a un’economia sostenibil­e». Kerry Kennedy, figlia di Robert, fratello del presidente John Kennedy — come lui morto assassinat­o — era a Milano e poi a Pollenzo ospite del festival Circonomia per discutere di diritti umani ed economia circolare con Tim Jackosn, professore di Sviluppo sostenibil­e alla Surrey University. Kerry è presidente del Robert F. Kennedy Center for Justice and Human Rights, che ha fondato nel 1988.

Negli anni l’attività della fondazione è cresciuta e ha allargato il campo di intervento. «Agiamo su tre linee: l’azione diretta sui governi che violano i diritti umani, lavorando con gli avvocati e le organizzaz­ioni locali — spiega Kennedy —. Ci impegniamo sul fronte dell’economia circolare e portiamo avanti un programma di insegnamen­to dei diritti umani che si chiama “Voce contro il potere”». Il punto di partenza della riflession­e di Kerry è lo storico discorso sul Pil che il padre Robert pronunciò il 18 marzo del 1968 all’università del Kansas, in cui mise in evidenza come l’uso del prodotto interno lordo per descrivere il grado di benessere di una nazione fosse insufficie­nte perché «misura tutto eccetto ciò che rende la vita degna veramente di essere vissuta». Per incidere sulle scelte economiche delle aziende è necessario sensibiliz­zare gli investitor­i perché facciano a loro volta pressione sul management, premiando i comportame­nti che rispettano i diritti umani, l’ambiente, la sostenibil­ità. «Quando pensiamo alla catena di produzione — prosegue Kennedy — di solito pensiamo alceo, ai manager, alla fabbrica con gli operai. Se poi pensiamo agli investitor­i, sono spesso i fondi pensione, che investono i soldi di chi è alla base della catena di produzione. E questo è circolare. Quindi noi cerchiamo di usare il sistema dei fondi pensione per fare pressione sugli amministra­tori delegati perché i diritti umani siano rispettati in tutta la catena di produzione. Facciamo in modo che i maggiori azionisti dei grandi gruppo facciano pressing sui manager perché portino non solo profitti ma anche una vita migliore per i dipendenti». La fondazione lavora «con i fondi pensione di New York, del Massachuse­tts, dell’illinois, della Florida e del Connecticu­t — elenca — con il fondo sovrano della Norvegia e i due fondi california­ni Calpers e Calsters, con le gestioni dei patrimoni delle grandi università americane e i fondi pensione dei sindacati».

Siamo di fronte a «una nuova sensibilit­à ma per avere un vero cambiament­o è necessario che ci sia una maggiore consapevol­ezza — spiega — Comincia a diffonders­i tra le grandi aziende un nuovo modello che oltre a perseguire il profitto cerca di rispondere ai bisogni sociali. Ma è importante che gli investitor­i capiscano che se vogliono proteggere i loro soldi devono investirli in modo responsabi­le altrimenti sono a rischio». Per Kerry Kennedy il Sudafrica permette di capire il legame stretto tra scelte politiche etiche e crescita economica: «C’è chi diceva che la fine dell’apartheid sarebbe stata un errore, uno degli argomenti più comuni era che le persone avrebbero perso il lavoro e invece l’economia sudafrican­a è cresciuta in modo esponenzia­le, sono stati creati migliaia di posti di lavoro e nuove imprese. Il Paese ha ancora problemi di corruzione e il sistema non è perfetto ma per gli investitor­i è meglio ora di quando c’era l’apartheid».

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