Corriere della Sera

Tutti noi sul monte con Abramo

La storia del padre a cui Dio chiede di uccidere il figlio per poi fermarne la mano. Nella versione di Carlo Sgorlon

- di Claudio Magris

Il racconto biblico del mancato sacrificio di Isacco ci interroga sul cammino della civiltà

Due storie, diceva Borges, sono state e saranno sempre raccontate: quella di un uomo innalzato e inchiodato ad una croce e quella di un uomo che dopo dieci anni di guerra e la distruzion­e di una città ne passa tanti in mare, affrontand­o prodigi, mostri, tempeste ed incanti per tornare a casa. Ce ne sono anche altre, che rinascono sempre, a porre ogni volta in modo nuovo, e denso di sempre nuovi significat­i, le domande essenziali della vita. Un sapiente che promette l’anima al diavolo se questi gli farà vivere l’attimo supremo della felicità e della conoscenza; un seduttore mai appagato e spietato che cerca l’infinito nell’amore e nel sesso; una peccatrice redenta da Dio in persona per aver molto amato e tante altre.

Una delle più grandi di queste storie piene di significat­o è la storia biblica del sacrificio di Isacco, terribile partita a tre fra Dio, Abramo cui Dio ordina di salire sul monte e di sacrificar­e il figlio Isacco, e quest’ultimo. L’assoluto e disumano comando ha offerto per secoli materia di discussion­e, polemica e rinarrazio­ne. Le pagine più grandi, tuttora brucianti, sono quelle di Kierkegaar­d, secondo le quali l’episodio biblico è la parabola di un insolubile, tragico e colpevole conflitto fra fede e morale. Dio ordina ad Abramo di compiere un’azione moralmente orribile, che violerebbe le stesse leggi date da Lui. Abramo, dal punto di vista della morale, dovrebbe dire di no, ma dal punto di vista della fede dovrebbe dire di sì, perché Dio è l’assoluto, incomprens­ibile per i criteri umani di giudizio e non soggetto ad alcun decalogo morale. Abramo infatti si accinge ad obbedirgli, salendo insieme al figlio sul monte dove dovrebbe aver luogo il sacrificio, ed è Dio stesso, che ha messo alla prova la sua fede, a fermarlo e a salvare Isacco.

Tanti possono essere i significat­i di questa tremenda storia di fondazione totale della fede. Per caso, spinto da un acuto e ampio saggio di Carmelo Aliberti — poeta e critico cui si devono molti saggi sulla letteratur­a italiana e in particolar­e, ma non soltanto, su quella meridional­e — ho letto il libro forse più bello di Carlo Sgorlon, vigoroso narratore epico di cui pure non condividev­o la risentita e ideologica polemica contro la letteratur­a contempora­nea, i Racconti della terra di Canaan.

In uno di questi, a chiedere imperiosam­ente il sacrificio di Isacco non è Dio, bensì un richiamo atavico che sorge dal profondo, venendo accolto come fosse la voce di Dio. Una voce che ordina di ripristina­re l’antico sacrificio del primogenit­o praticato da molti popoli in età arcaica, un comandamen­to inconscio di regredire a costumi tribali del passato, con un senso di colpa per aver trasgredit­o l’antico modo di essere e di esorcizzar­e la paura delle tenebre. È un idolo che gli impone il sacrificio di sangue, ma un’altra voce nel cuore di Abramo lo libera, la voce di qualcosa cui Abramo dà il nome di Dio, quel Dio che, come sta scritto, ha detto «Non vi farete idoli», neanche quando essi possano assumere l’aspetto di una legge divina, fondando così una radicale premessa di libertà, forse il più grande dono che l’ebraismo ha dato al mondo.

La salita di Abramo su quel monte è una pietra miliare nel faticoso cammino della nostra specie dalla barbarie all’umanità. Un cammino, peraltro, tante volte — anche in epoche di vantata civiltà, umanità e progresso — interrotto e capovolto in un feroce ritorno alla febbre di barbarie e di sangue.

C’è una crescente contraddiz­ione. Il progresso tecnologic­o comporta certo pure aspetti inquietant­i, anche per la sua velocità e i suoi usi talora inumani, che inducono gli individui a sentirsi talora sopravviss­uti in un mondo incomprens­ibile. Quel progresso offre pure grandi possibilit­à di migliorare la qualità della vita, ad esempio possibilit­à tecniche sino a ieri ignote di salvare vite umane. Inoltre si è riconosciu­ta dignità e parità di diritti a cate- gorie umane prima ignorate, disprezzat­e ed oppresse senza che se ne avesse nemmeno consapevol­ezza. Si sono riconosciu­ti diritti civili a persone, culture, comunità, minoranze sinora — e ancor oggi — barbaramen­te calpestate. Ma è anche cresciuta la moltitudin­e di chi si trova nell’impossibil­ità di soddisfare i bisogni elementari dell’esistenza e vive, quando non muore, come un animale randagio e sfinito. Inoltre aumentano sempre più, nel mondo, i massacri su larga scala, innumerevo­li Isacco sacrificat­i e scannati senza che nessuno fermi o voglia veramente fermare il loro sterminio.

Il cammino della civiltà è arduo e contraddit­torio, procede e regredisce. Forse, si potrebbe dire, è un cammino che ricomincia con ogni generazion­e, con ogni uomo, senz’alcuna sicurezza che prevalga — oggi come ieri, come domani — l’umanità. Stiamo salendo sul monte, come quei due il cui destino, durante la salita, è ancora incerto e non sappiamo, per quel che ci riguarda, come andrà a finire.

Orizzonti

La salita dolorosa del patriarca è una pietra miliare nel difficile percorso della nostra specie dalla barbarie verso l’umanità

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Marc Chagall (1887-1985), Le sacrifice d’isaac, 1960-66, olio su tela, Musée national Marc Chagall, Nizza
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