Corriere della Sera

Il furore, la nostalgia, gli addii Roth, anima di una nazione

L’ex direttore di «Granta»: volevo lasciare il Paese, lui mi disse di non farlo. Parlava per esperienza

- di John Freeman (Traduzione di Maria Sepa)

Capì l’america scrivendo di politica, sesso, razza, ipocrisia, morte Ricordando­ci quanto l’umanità possa essere complessa e divertente

La voce al telefono era calda, ma trattenuta, come se parlare e pensare fosse una sola cosa. Questa è l’impression­e che mi fece Philip Roth nel 2004, quando telefonò alla sede di «Newsday» per parlare del suo nuovo romanzo, Il complotto contro l’america, in cui il noto antisemita Charles Lindbergh si candida alle elezioni presidenzi­ali del 1940 e sconfigge Franklin Roosevelt.

Nella variante storica di Roth, la prima mossa di Lindbergh è firmare un trattato con Hitler, e ben presto per gli ebrei in America le cose si fanno difficili.

Roth parlò per un’ora, mostrando la sua fenomenale memoria, il suo interesse per la storia americana e la veemente passione per la giustizia. Era un grande parlatore, pieno di storie e aneddoti e, come un grande comico, la sua costruzion­e mirava sempre alla battuta finale. Poi virava rapidament­e dall’assurdo alla serietà.

Non era un libro sull’amministra­zione di George W. Bush, sottolineò. Era un’altra cosa. In sostanza, disse che non era successo, ma sarebbe potuto accadere. Poi fece una cosa che pochi intervista­ti fanno: mi rivolse delle domande. Che cosa pensavo di come stava andando il Paese, che cosa avrei potuto fare? Risposi che pensavo di andarmene, ma lui mi disse di non farlo.

«Sei una delle persone che possono cambiare le cose», disse. «Puoi scrivere, puoi andare a vedere quel che succede e scriverne. Se quelli come te se ne vanno, dove andrà a finire il Paese?».

Non mi era chiaro allora, ma adesso, dopo la sua morte all’età di 85 anni, lo capisco: Roth parlava per esperienza. Negli anni Settanta e Ottanta visse in parte a Londra, dove curò per Penguin la pubblicazi­one di una serie di scrittori dell’europa dell’est, tra cui Danilo Kis, Milan Kundera, Bruno Schulz e Tadeusz Borowski.

Tutti questi scrittori avevano lavorato in esilio — ad eccezione di Schulz, che era stato ucciso per strada durante la Soluzione finale da un ufficiale della Gestapo irato con l’uomo che aveva protetto Kis.

Quello di Roth era un esilio auto-imposto. Roth rispondeva alle critiche sul suo essere ebreo volgendo lo sguardo alla condizione globale degli ebrei. Il furore del suo primo libro Goodbye, Columbus, e il clamore suscitato dal best-seller Lamento di Portnoy, per aver portato alla luce la libido degli uomini ebrei, avevano creato uno spazio angusto — in cui c’era posto solo per gli attacchi e le repliche.

Quando Roth tornò negli Stati Uniti, riprese a occuparsi del suo Paese e a cercare di capirlo attraverso la grande serie di romanzi, che vanno da Il teatro di Sabbath a La macchia umana; scrisse di rivoluzion­e radicale, di razza, dell’ipocrisia dell’atteggiame­nto pu- ritano degli americani verso il sesso e, alla fine, della morte.

Poi a poco a poco si ritirò e prese a scrivere di nostalgia, dell’invecchiar­e, di addii. E infine si fermò. A differenza di tanti grandi scrittori, andò in pensione, e questa settimana, in un periodo in cui il suo romanzo del 2004 sembra essere tornato in vita nella politica americana, è difficile non desiderare che l’universo avesse rimandato il suo definitivo esilio. Avrebbe così potuto fare quello che ha sempre fatto meglio, ricordarci quanto l’animale umano possa essere complesso e divertente e, nelle migliori circostanz­e, buono.

Esequie

Domani il funerale del grande romanziere, che non ha voluto alcun tipo di rito religioso ebraico

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 ??  ?? Critico e scrittore, John Freeman (qui sopra) è stato direttore della rivista letterario «Granta». Nella foto grande: Roth nel 2010 (foto Eric Thayer/ Reuters)
Critico e scrittore, John Freeman (qui sopra) è stato direttore della rivista letterario «Granta». Nella foto grande: Roth nel 2010 (foto Eric Thayer/ Reuters)

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