L’INCANTO INSONDABILE DEGLI ABISSI
I racconti di Fortichiari
Per avviarsi a celebrare con i debiti onori La cerimonia del nuoto (Bompiani, pagine 135, 15) Valentina Fortichiari chiama a raccolta un drappello di eroi: figure grandiose, leggendarie, gloriose che, ciascuna con il suo stile e secondo il proprio «umore» hanno saputo dominare l’acqua, elemento misterioso e sfuggente. Jean Taris, roi de l’eau, gagliardo campione degli anni Trenta; gli attori-nuotatori Johnny Weissmüller e Carlo Pedersoli che, in vasca, spogliati delle maschere di Tarzan e di Bud Spencer, avevano sfondato i record di velocità dei loro tempi, rispettivamente gli anni Venti e Cinquanta; il divo Burt Lancaster che, per converso, messo a nudo sul grande schermo, aveva vestito il ruolo di un mago natante, capace di giochi di prestigio compiuti a forza di bracciate (si veda Un uomo a nudo da Il nuotatore di John Cheever); Michael Phelps, un portento di forza e leggerezza che, con sublime sprezzatura, ovvero con l’arte di chi sa celare l’arte, vola celando ogni sforzo nel suo sprint finale.
Curiosamente sono tutti maschi, guardati con ardente ammirazione da colei — l’autrice e fin dall’infanzia innamorata nuotatrice — che è vistosamente sedotta dalla femminilità del nuoto: la parola «grazia» con tutte le sue varianti aggettivali — grazioso, aggraziato — e il suo segreto rimando soprannaturale — gratitudine incondizionata, grazia divina — ricorre almeno una decina di volte in questi racconti. Ma in fondo non c’è da stupirsi, poiché la fascinazione del nuoto — inesplicabile e dunque inesauribile: non è questa la cifra di grandi amori? — coincide per molti versi con un’attrazione per l’ignoto, l’altro, il diverso: per un essere sconosciuto che però oscuramente ci assomiglia.
Sondando questa attraente alterità, Fortichiari si spinge più lontano. Si immerge a esplorare gli abissi e si diverte, ma con serissima curiosità, a immaginare gli struggimenti di un giovane ippocampo che, appeso per la coda a ricciolo a un raggio di sole filtrato sotto l’onda, ascolta il respiro del mare; o l’ebbrezza di una megattera che affiora gigantesca e senza peso per riconquistarsi con un tuffo superbo il silenzio dei fondali; la fregola dei tonni di corsa lanciati a perdifiato a inseguire un destino di morte; perfino la delizia dello squalo che divora chilometri di acque libere per ingoiare ossigeno con le branchie o le carni di un delfino con le zanne.
Fosse mancata quella punta di cattiveria, di noncurante ferocia, il sapore dei racconti non sarebbe stato così gustoso. Molti di essi nel finale non lasciano scampo all’acquatico protagonista: che si tratti di un capodoglio intrappolato per la mandibola a un cavo sottomarino, di un narvalo spiaggiato o di un malinconico inunit assiderato. Insieme al desiderio, una paura ancestrale, un timore viscerale afferra l’anima di chiunque affronti il profondo, e la vaga sensazione di una sfida, di una perdita, di un distacco da sé sfiora sempre per un attimo — come un brivido — la mente di chi si butta in acqua: non foss’altro per il fatto che, di solito, è fredda.
Valentina che, come i nuotatori più forti, ama le acque fredde, procede ondulando con la penna in mano (anche scrivere, come camminare e volare è una metafora del nuotare) sopra e sotto quella soglia. Si immerge e ne riemerge perscrutandola da diverse angolazioni. Le più maliose e sono quelle messe a fuoco dal basso verso l’aria aperta, dalla cupa vastità dei mari verso il nostro mondo, dagli occhi di un pesce volante che sogna la luce oltre l’inviolabile soffitto della superficie o da quelli dell’unicorno degli oceani che cerca un varco nella crosta di ghiaccio. Visto da loro, da laggiù, anche il nostro prosaico ambiente in secca rivela l’insondabile incanto degli abissi.