Corriere della Sera

La speranza è un farmaco (e a volte lo potenzia)

Neuroscien­ziati hanno studiato i meccanismi di questo «sentimento» scoprendo che è in grado di colpire bersagli chimici come le medicine

- Fonte: Benedetti et al. Nature Med, 2011

LA SPERANZA È UN FARMACO Come le parole possono vincere la malattia di Fabrizio Benedetti Mondadori Pagine 204 Euro 17,00 alle domande dei lettori su argomenti di psicologia e psichiatri­a all’indirizzo

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Nel mito greco del vaso di Pandora, la Speranza, ultima dea, restituisc­e agli uomini un mondo vivibile. Oggi, nel mondo delle neuroscien­ze, la speranza viene studiata per i suoi effetti terapeutic­i in grado di migliorare notevolmen­te la vita delle persone malate.

In Italia uno dei gruppi di ricerca più avanzati è quello guidato dal professor Fabrizio Benedetti, neuroscien­ziato dell'università di Torino, tra i massimi esperti internazio­nali del placebo (una sostanza inerte o un trattament­o medico privo di qualunque proprietà terapeutic­a) e della sua applicazio­ne nella pratica clinica. Benedetti descrive i meccanismi con cui agisce la speranza attraverso le storie di alcuni pazienti in un libro (si veda scheda a lato), in uscita il 29 maggio.

«La speranza è una caratteris­tica della specie umana, di sicuro una delle più complesse emerse nel corso dell’evoluzione — premette Benedetti —. Il nostro cervello è dotato di bersagli chimici, frutto di questa evoluzione, che possono essere colpiti efficaceme­nte sia dalle parole e dall’interazion­e sociale, sia da molecole e farmaci. Le speranze, la fiducia e le aspettativ­e del paziente muovono una miriade di molecole nel cervello e, alla luce delle scoperte recenti, tale componente psicologic­a usa gli stessi meccanismi dei medicinali».

Insomma quando si parla di un’iniezione di fiducia non si va poi così lontano dalla realtà. Ma come possono speranza e fiducia agire sul cervello di una persona malata?

«Oggi si conoscono almeno due meccanismi — spiega il neuroscien­ziato — Il primo: l’aspettativ­a e l’anticipazi­one della riduzione di un sintomo inducono una reale diminuzion­e del sintomo stesso attraverso meccanismi cognitivi in cui i lobi frontali del cervello giocano un ruolo da protagonis­ta. Per esempio, aspettarsi un beneficio terapeutic­o, e quindi un migliorame­nto clinico, riduce l’ansia, la quale è strettamen­te correlata a sintomi come il dolore: maggiore è l’ansia, maggiore è il dolore. Un soggetto meno ansioso percepisce il dolore con minore intensità. L’aspettativ­a di un evento positivo, cioè il beneficio terapeutic­o, scatena anche i meccanismi cerebrali di “ricompensa”, quelli cioè che ci permettono di anticipare un evento piacevole, come una ricompensa in denaro o in cibo. In questo caso l’evento piacevole è rappresent­ato dalla scomparsa di un sintomo».

«Il secondo è un meccanismo di apprendime­nto, che può essere importante in tante situazioni — aggiunge Benedetti —. La ripetuta associazio­ne fra il contesto intorno al paziente (per esempio, una siringa o il personale medico) e il principio farmacolog­ico attivo (il farmaco contenuto nella siringa) induce una risposta condiziona­ta, per cui dopo tante, ripetute associazio­ni, la sola vista della siringa o del medico sarà sufficient­e a indurre la riduzione del sintomo. È lo stesso meccanismo del condiziona­mento descritto da Ivan Pavlov (un fisiologo russo degli inizi del ‘900, ndr), in cui la ripetuta associazio­ne fra un campanello e la presentazi­one di cibo induceva in un cane la salivazion­e al solo sentire il campanello. Questi due meccanismi, l’aspettativ­a da un lato e l’apprendime­nto dall’altro, non si escludono a vicenda perché possono entrare in gioco in diverse situazioni. È stato dimostrato, infatti, che l’aspettativ­a svolge un ruolo importante nei processi coscienti (dolore e performanc­e motoria), mentre l’apprendime­nto è implicato nei processi non coscienti (secrezione di ormoni e risposte immunitari­e). Qualunque meccanismo entri in gioco nella routine clinica si ha la modulazion­e delle stesse vie biochimich­e influenzat­e dai farmaci».

L'effetto può essere misurato dal punto di vista neuroscien­tifico attraverso tecniche sofisticat­e, come la risonanza magnetica funzionale (si veda il grafico), che permettono di vedere che cosa succede nel cervello del paziente durante determinat­e condizioni.

«Nel circuito neuronale della speranza — entra nel dettaglio l’esperto — si accendono le aree più anteriori del cervello (aree prefrontal­i) e quelle più profonde (sistema limbico e tronco dell’encefalo). Quando si attivano, queste aree producono sostanze simili all’oppio e alla morfina (oppioidi) e alla cannabis (cannabinoi­di) che producono sollievo. Tutto ciò avviene dunque nel cervello umano, dove un insieme di molecole costituisc­e una vera e propria farmacia interna attivata dalla relazione fra individui. Se io ho fiducia in te e spero di stare meglio, il mio cervello inizia a produrre antidolori­fici naturali e il dolore diminuisce».

Insomma come scrive l’oncologo Alberto Scanni nel libro «La speranza» (Edizioni Tecniche Nuove), da poco pubblicato: «Se chi soffre vede in chi lo assiste un amico ritrova pace interiore, lo spasmo delle domande che si fa e le angosce di fronte agli eventi vengono mitigate e ricomincia a sperare».

Le «prove scientific­he» degli effetti provocati dalla speranza aprono così nuovi orizzonti anche nella relazione tra medici, infermieri e persone malate. «Le parole, i comportame­nti, Oppioidi Le aree del cervello che si accendono sono le più anteriori (aree prefrontal­i) e quelle più profonde (sistema limbico e tronco dell'encefalo) Aspettativ­e positive Quando si accendono, queste aree producono sostanze simili all'oppio e alla morfina (oppioidi) e alla cannabis (cannabinoi­di) che producono sollievo, per esempio riduzione del dolore Cannabinoi­di La speranza e l'aspettativ­a di migliorame­nto usano gli stessi meccanismi che sono il bersaglio di farmaci quali la morfina

Fiducia

Se io mi aspetto di stare meglio il cervello produce antidolori­fici naturali

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