E il Quirinale chiese ai leader: perché non volete Giorgetti?
«Non l’ho fatto a cuor leggero», dice Mattarella, e quell’espressione semplice, pronunciata con voce appannata ma ferma, riassume l’assillo che lo ha tormentato queste settimane d’impazzimento generale, prima di giungere alla scelta più drastica. Cade l’ipotesi del governo Lega-5 Stelle e si materializza un incarico per Carlo Cottarelli, convocato per stamane al Quirinale. Non era lui il candidato «coperto» al quale il capo dello Stato qualche settimana fa pensava di affidare un esecutivo «di garanzia e servizio», se il patto gialloverde fosse fallito. Questo nome si è imposto adesso per tamponare in corsa i conti pubblici, dopo che l’italia è stata messa sotto attacco dagli speculatori finanziari.
Ora che tutto è andato in tilt potremo verificare, e lui per primo, quale grado di responsabilità saprà mostrare il Parlamento davanti a una crisi tanto grave quanto senza precedenti. Comunque non c’era altra opzione, per Mattarella. Che non avrebbe potuto lasciare l’istituzione Presidenza della Repubblica colpita e, anzi, lesionata, nelle prerogative fissate dalla Carta costituzionale. Un’osservazione che fino all’ultimo ha girato, argomentandola, anche ai due partner dell’ormai disciolta maggioranza, che sono stati degli agnellini davanti a lui. Nessun veto, capite? Piuttosto perché irrigidirsi su Paolo Savona quando al suo posto vi ho proposto un interim a Conte o l’incarico pieno a un leghista di peso come Giorgetti? «Capiamo tutto, presidente, ma per come si è messa la cosa non possiamo togliere quel nome dalla casella dell’economia», gli hanno risposto. Con garbo. Salvo fare, subito dopo esser usciti dal Palazzo, «la faccia feroce», come dicono a Napoli, mentre si esibivano in piazze e tv fino a vagheggiare l’impeachment.
E qui sta il mistero della giornata. Del quale Salvini, e pure Di Maio (che si era difeso dando la colpa al «socio» di governo), dovranno rispondere al loro popolo. L’intera domenica si era consumata in estremi tentativi di mediazione tra i due partiti e il candidato premier, con il coinvolgimento dell’economista controverso,
sondato a distanza per un’eventuale disponibilità ad accettare un altro ministero. Una corsa contro il tempo come raramente se ne vedono nella Roma dai tortuosi ritmi bizantini, specie nei negoziati politici. Una guerra di nervi. Con l’incubo dell’irremovibilità dei due leader, ancorati all’ultimatum «o Savona o il voto», che poteva far saltare tutto. Come poi è accaduto.
La trattativa a un certo punto si era spostata al Quirinale, dove Salvini e Di Maio erano saliti. Incontri i cui contenuti avrebbero dovuto restare riservati
e che sono invece stati subito pubblicamente raccontati (cosa mai vista), confermando che la campagna elettorale più lunga della nostra storia si era riaccesa. Un modo per mettere fin d’ora Mattarella nel mirino, con una speculazione ultrapopulista sui suoi poteri. Insomma: a nessuno dei due interessavano le controindicazioni costituzionali che inducevano l’inquilino del Colle a dire no alla candidatura di Savona all’economia, quanto cercare il casus belli. Per cavalcarlo.
Un momento spartiacque si era avuto all’ora di pranzo, quando il professore cagliaritano aveva fatto diffondere un chiarimento su quella che aveva definito «una scomposta polemica sulle mie idee». Documento ambiguo. Perché si riparava dietro il «contratto» di Lega e 5 Stelle, senza entrare nei nodi di un programma economico insostenibile sul piano della disciplina di bilancio, attraverso investimenti extradeficit. E soprattutto reticente sul «piano» per far uscire l’italia dall’euro predicato con insistenza da Savona.