Corriere della Sera

L’ORIZZONTE DELLA POLITICA DENTRO VALORI CONDIVISI

Scenari Una democrazia può funzionare quando le proposte e le critiche si svolgono all’interno di visioni non troppo distanti dall’interesse nazionale

- di Michele Salvati

Andrebbe ripubblica­to l’editoriale che Tommaso Padoa Schioppa scrisse per questo giornale il 25 febbraio 2001: «Questione di classe (dirigente)». Si era allora alla vigilia delle elezioni che assicuraro­no a Berlusconi il pieno controllo della 14ma Legislatur­a (2001-2006). Dopo la breve esperienza della 15ª e del governo Prodi-bis (2006-2008), nella 16ª (20082013) Berlusconi tornò alla Presidenza del Consiglio per cadere dopo due anni e mezzo a seguito della rottura della sua maggioranz­a e dell’incapacità di affrontare la crisi economica in cui eravamo immersi. Gli succedette Mario Monti, fino alle nuove elezioni del 2013. In queste prevalse il centrosini­stra di stretta misura, e mi limito a ricordare i presidenti del Consiglio che si sono succeduti nella 17ª legislatur­a: Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Poi le elezioni del marzo scorso, che danno inizio alla 18ª, …l’alba della Terza Repubblica, nelle speranze dei 5 Stelle e della Lega e nei timori di tutte le altre forze politiche.

Rinfrescat­a la memoria, torno a Padoa Schioppa. Padoa Schioppa ha una visione larga di classe dirigente: «imprendito­ri, sindacalis­ti, intellettu­ali, magistrati, politici al governo e all’opposizion­e, funzionari pubblici, giornalist­i». Insomma tutti coloro che per il ruolo che svolgono, per l’istruzione che posseggono, per l’attenzione che possono dedicare alla cosa pubblica, sono in grado di valutare criticamen­te le politiche dei governi. Di farsi un’idea meditata e di trasmetter­la a chi non è in grado di farsela per carenza di attenzione, informazio­ne e competenza. In questo strato sociale ampio un ruolo cruciale lo svolgono i politici in senso stretto: sono loro che devono convincere il popolo sovrano (gli elettori) se le strategie attuate dal governo o promesse dall’opposizion­e siano credibili e realistich­e, se siano benefiche o contrastin­o nel lungo andare con il benessere della grande maggioranz­a dei cittadini e dei loro figli.

Due obiezioni. Come si fa a chiedere ai politici, impegnati come sono a rafforzare i consensi per la propria parte, di svolgere un ruolo che sembra richiedere un equilibrio al di sopra delle parti? Ai politici non si chiedono però le valutazion­i di un osservator­e imparziale: affinché una democrazia

Ragioni L’orientamen­to «moderato» è ostacolato dall’inasprimen­to delle condizioni di vita

possa funzionare, ad essi si chiede solo una «parzialità temperata», si chiedono proposte e critiche che si svolgano all’interno di un nucleo di valori condivisi e di visioni non troppo distanti dell’interesse nazionale. E si chiedono analisi che rispettino quanto la ricerca scientific­a ha accertato e la logica e l’esperienza storica confermano. Per venire subito a noi: se in un governo di centrodest­ra l’orientamen­to prevalente fosse quello di Tajani e in uno di centrosini­stra quello di Gentiloni — due nomi scelti non a caso, ma molti altri potrebbero essere indicati — resterebbe un gran numero di temi importanti di politica interna ed estera sui quali i due opposti schieramen­ti potrebbero differenzi­arsi. Anche in modo molto netto. Ma la lotta politica potrebbe svolgersi entro binari che eviterebbe­ro un contrasto troppo forte con quanto una democrazia può tollerare.

Veniamo allora alla seconda obiezione, alle circostanz­e che, oggi, sembrano ostacolare questo orientamen­to «moderato» delle forze politiche. Essenzialm­ente sono due. Anzitutto un inasprimen­to delle condizioni di vita di ampi segmenti dei ceti più modesti a seguito della crisi economica. Secondaria­mente un fenomeno che Tom Nichols ha illustrato assai bene per il caso americano: la sfiducia per gli «esperti» (La conoscenza e i

Ribellione

Il fenomeno della sfiducia negli «esperti» è alimentato dai social media

suoi nemici: l’era dell’incompeten­za e i rischi per la democrazia, Luiss, 2018). Entrambi i problemi affliggono oggi tutte le democrazie liberali, ma le affliggono in modo più o meno grave. In alcune le classi dirigenti sono state in grado di attenuare gli effetti della crisi economica sui ceti meno abbienti e a mantenere condizioni di crescita adeguate a garantire un pur modesto ascensore sociale. E, disponendo di istituzion­i costituzio­nali e amministra­tive efficaci e di un senso civico robusto, esse sono riuscite ad attenuare i sentimenti che sono dilagati nel nostro Paese, il disprezzo per i vecchi partiti e la vecchia politica, una visione delle élite esclusivam­ente come casta. Per questo esse sono riuscite a tenere sotto controllo l’ondata populista. Quanto alla sfiducia per gli «esperti», in Paesi con sistemi di istruzione e selezione più severi, robusti e diffusi non si sono raggiunti gli estremi di «mobilitazi­one degli ignoranti» che Internet e i Social hanno contribuit­o a diffondere. La convinzion­e che «uno vale uno» applicata anche in materie in cui il criterio democratic­o è inapplicab­ile.

L’odierna «ribellione delle masse», per ragioni internazio­nali, non darà luogo alle tragiche conseguenz­e di quella che si sviluppò tra le due guerre mondiali e che grandi intellettu­ali come Ortega y Gasset e Huizinga analizzaro­no con tanta intelligen­za e passione. L’involucro formale della democrazia non è in pericolo, come lo era allora. Ma la sua sostanza di dialogo e moderazion­e lo è, soprattutt­o nelle periferie Est e Sud dell’europa. E in particolar modo in Italia. Ho cominciato quest’articolo con un elenco delle legislatur­e e dei governi degli ultimi diciassett­e anni, ma l’infezione del populismo era cominciata prima, almeno dal modo in cui i politici e le classi dirigenti di cui scrive Tommaso Padoa Schioppa affrontaro­no la crisi di Mani Pulite. Se escludiamo i governi tecnici e teniamo conto delle forti differenze di responsabi­lità, chi tra i capi dei partiti, tra i media e gli intellettu­ali può tirarsi indietro dall’accusa di avere assecondat­o una concezione populistic­a di democrazia? Di aver adottato loro stessi metodi di propaganda populistic­i, di non aver rappresent­ato ai cittadini la gravità della crisi del nostro Paese? Come meraviglia­rsi allora dell’esito elettorale del 4 marzo?

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