IMPROVVISI DI MEMORIA
L’appuntamento Torna la rassegna con un’edizione speciale per i primi 45 anni. Uno dei musicisti più fedeli racconta il suo legame con Perugia: i festival devono alimentare la creatività FRESU, L’ISOLA E IL CONTINENTE «SONO CRESCIUTO A UMBRIA JAZZ È STIM
Il trombettista Paolo Fresu ha attraversato la storia di Umbria Jazz segnandone, in più di un’occasione, le trasformazioni. Quest’anno sarà presente alla testa del suo Devil Quartet e prenderà parte al grande omaggio a Quincy Jones, la festa per i suoi ottantacinque anni. «Non ricordo proprio la mia prima volta al festival — confessa —. Dev’essere stato nella prima metà degli anni Ottanta, nell’orchestra di Mario Raja oppure nel gruppo di Paolo Damiani e Tiziana Ghiglioni».
Ma sa benissimo quando ha conosciuto il fondatore di Umbria Jazz, Carlo Pagnotta, «perché è stata una delle svolte nella mia carriera: fu nel 1986, quando sotto gli auspici del festival il quintetto del contrabbassista Giovanni Tommaso fu chiamato a suonare negli Stati Uniti. Io ne facevo parte assieme a Massimo Urbani, Danilo Rea e Roberto Gatto. Era la prima volta che andavo in America».
Fu anche il momento in cui, grazie a quei concerti, Umbria Jazz cominciò a essere conosciuta a livello internazionale.
«È stata una delle grandi intuizioni di Pagnotta, che in quel modo ha esportato il marchio perugino. Ed è stato anche l’inizio di un’apertura nei confronti dei jazzisti italiani».
Poi proprio lei, Fresu, a diventare una delle icone di Umbria Jazz...
«Fresu, ma prima di lui Enrico Rava, e anche Stefano Bollani, Danilo Rea, parecchi altri. Io riconosco di essermi fatto ascoltare dal pubblico della manifestazione umbra con tutte le mie varie formazioni — la prima fu certamente il quintetto, suonavamo a tarda sera in un club — e anche in tanti altri progetti, duetti come quelli con Omar Sosa e con Daniele Di Bonaventura, il Brass Bang con quattro ottoni, la mia collaborazione con il quartetto d’archi Alborada... Uno dei progetti più ambiziosi è stata la ripresa del medioevale Laudario di Cortona, in quartetto con Di Bonaventura e l’aggiunta dell’orchestra da Camera di Perugia. Un progetto, che fra poco uscirà su disco, che non avrebbe mai potuto vedere la luce senza la collaborazione attiva di Umbria Jazz. Io credo che a questo servano i festival: a stimolare la creatività dei musicisti».
Da ragazzo vedevo le foto della rassegna sulle riviste e la cosa mi affascinava moltissimo
Tra poco uscirà un mio disco che senza Umbria Jazz non sarebbe mai potuto nascere
Lei è nato nel 1961, la prima edizione del festival umbro è del 1973. Come ha segnato l’immaginario dell’adolescente Paolo Fresu?
«Vivendo in un paese di pastori, ci ho messo un po’ a farmi affascinare dal jazz... Un amico mi compilava delle musicassette e mi prestava la rivista specializzata Musica Jazz: una lettura sconcertante, non capivo nulla, eppure immancabile. Vedevo le foto delle prime edizioni di Umbria Jazz con le maree di sacchi a pelo dei giovani che andavano a quei concerti, una cosa formidabile. Ma non riuscivo a immaginare come fosse la musica che ascoltavano. Però l’idea di prendere il traghetto e andare a seguire i festival del “continente” era superiore alle mie possibilità. Non ho mai seguito i festival della penisola finché non ci sono stato dentro come musicista. Sono andato solo qualche volta al festival di Cagliari, dove ascoltai i musicisti più diversi, da Muhal Abrams a Franco D’andrea a B.B. King».
Lei in Sardegna organizza anche un festival nel suo paese d’origine, Berchidda. Ed ha avuto un successo straordinario. Ha «rubato» qualche idea organizzativa a Umbria Jazz?
«Direi proprio di no, ma non vorrei essere frainteso, non si tratta di presunzione o di superbia. Quando nel 1988 fondai la rassegna Time In Jazz mi resi subito conto che un paesino dell’entroterra sardo non avrebbe mai potuto avere l’attrattiva unica di una città d’arte come Perugia. Per questo Umbria Jazz non avrebbe mai potuto rappresentare un modello di riferimento. Casomai mi influenzò la rassegna I Suoni delle Dolomiti: noi dovevamo puntare sul rapporto di Berchidda con lo spazio che lo circonda, la campagna, le chiese rurali, le pecore che pascolano... Così è nato un festival che coinvolge i musicisti e il pubblico alla sua particolare maniera, creando una sorta di viaggio sensoriale. Ha stupito ed emozionato anche Carlo Pagnotta, quando l’ho invitato da noi. Ogni organizzatore deve riuscire a immaginare il proprio festival».
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