E noi perugini diventiamo cosmopoliti in quelle notti
Perugia è una città particolare. Ha un ateneo con più di 700 anni di storia (è nato nel 1308) e una Università per Stranieri che dal 1925 accoglie ragazzi da tutto il mondo. Eppure i perugini, acculturati, eleganti e un po’ gagà, hanno un imprevedibile lato «rustico», come la crosta del pane locale. Sono a volte chiusi al nuovo, poco inclini ad allargare il giro: un perugino si porta dietro per tutta la vita le amicizie strette al liceo, raramente lascia la sua città, e se lo fa prima o poi ci ritorna. Meglio prima che poi. L’inverno passa lieve tra cene dall’imprescindibile Cesarino in piazza IV Novembre, le «vasche» in Corso Vannucci, partite di burraco a casa tra amici che sotto Natale diventano innocue bische di poker con in coda una briscola. Fuori c’è la tramontana, Perugia è freddissima d’inverno. Poi però arriva luglio e ogni anno, come il miracolo di San Gennaro, si compie quello più profano di Umbria Jazz. In strada si riversano centinaia di persone: molti sono turisti, ma molti siamo proprio noi, i perugini. È una primavera del cuore e della mente che riparte puntuale: i concerti all’arena di Santa Giuliana sono sempre sold out e quelli di fronte alla Fontana Maggiore sono un piccolo bivacco a cielo aperto. Dopo cena ci andiamo a sedere sui gradini del Duomo di fianco a percussionistiche scandiscono il ritmo della notte. Un imprenditore italiano mi ha confidato che una volta è rimasto fuori da un concerto ai Giardini del Frontone. Non si è arreso e ha scavalcato il muretto: la visione gli ha strappato un «ohhh». Dall’altra parte c’era Herbie Hancock, che prima aveva visto suonare solo a New York. Umbria Jazz è questo: trasforma la nostra bella città in una grande metropoli del jazz. E noi perugini diventiamo dei veri cosmopoliti.