La solitudine di Karius, l’eroe moderno diventa uno di noi
Èuna sensazione comune, quello strapiombo improvviso che strappa dal sonno. Non è niente, solo un sogno triste, ha scritto un grande come Martin Amis. Ci sono quei risvegli improvvisi dettati da una sensazione di vertigine, come cadere nel vuoto, apnee che sembra di annegare nei propri polmoni mentre si è a letto. Certo, la visione di qualcosa di brutto che accade ai propri figli, ai propri cari. Oppure immaginarsi svelamenti dolorosi di verità nascoste. Quella volta che hai sbagliato, tu e solo tu, colpa tua, a causa di quell’errore hai fatto soffrire altre persone, compagni di squadra, amici, mogli o mariti. Non sempre sono questioni capitali. Ognuno ha la sua fitta nel cuore preferita. Piccole e grandi vergogne, comunque una sensazione di dolore acuto che riemerge, a distanza di tanti anni, perché non è sempre vero che il tempo aggiusta tutto, è solo una cosa che ci diciamo tra noi umani per consolarci, sapendo che al massimo è vera a metà. L’altra sera i commenti social sul povero Karius ondeggiavano tra dileggio e compassione. Almeno fino al novantesimo prevaleva il primo, le «papere», che termine orrendo, del portiere tedesco del Liverpool avevano condannato la sua squadra. Solo quelle, nient’altro. Senza nessuna altra causa possibile. Colpa tua. Dopo il triplice fischio sono apparse chiare le conseguenze. Quell’uomo piangeva disperato, si era svegliato all’improvviso, era stato costretto a prendere atto di tutto e tutto insieme. La sua inadeguatezza, della quale tutti tranne lui erano al corrente, la sua paura, la catastrofe sportiva che queste due cose hanno generato. La solitudine sul campo, con nessun compagno che si avvicinava per consolarlo, diventerà la solitudine con la quale sarà condannato a rivivere quei momenti, quegli attimi, ogni volta chiedendosi cosa sarebbe stato se fosse stato più coraggioso e più bravo, ma sempre realizzando un attimo prima di svegliarsi che non era possibile, perché allora non sarebbe stato se stesso ma un altro, più bravo, più forte, più sicuro. Non lui, Loris Karius, portiere. Qualche anno fa un allenatore famoso che aveva appena perso una partita per uno sbaglio del suo numero uno, spiegò che quello del portiere è il più solitario dei ruoli. Come essere un tennista tra altri dieci calciatori, rispondi in solido dei tuoi errori, non c’è mai una possibile condivisione che li
possa lenire, non c’è nessuno che abbia mai scritto della «papera» di un terzino e di un centrocampista. Chissà perché pensiamo sempre che questi eroi moderni, e Karius ne ha le sembianze, alto, bello, statuario, non conoscano fragilità e debolezze che invece sono comuni a noi mortali. Lo sport agonistico ha questo di atroce. Ti espone, mostra i tuoi limiti, costringe a prendere coscienza della propria inadeguatezza. A Karius è successo davanti a qualche milione di persone. «Non sono ancora riuscito a chiudere occhio — ha detto il mattino dopo — continuo a rivivere quelle due azioni nella mia mente». Come tutti sconterà la sua condanna da solo. Tra un mese, un anno, tra molti anni, quando sarà circondato da figli e nipoti, svegliandosi nel cuore della notte, all’improvviso, dopo aver pianto nel sonno. Rivivrà le immagini di Kiev. Se sarà fortunato, come gli auguriamo, avrà accanto una persona che gli dirà che non importa, era solo un sogno, adesso torna a dormire che è passato. Ma lui saprà che non è vero. Perché non passa mai. Loris Karius, uno di noi.