Un romanzo iniziato a Gerusalemme Tra imprese e follie è una corsa-certezza
Da città santa (Gerusalemme) ROMA a città santa (Roma), prima che una corsa ciclistica è stato un viaggio (voto 10 e lode) che la partenza extraeuropea (la prima di un Grand Tour nella storia) ha reso ben più speciale del solito. Quella di Israele con le sue tre tappe (crono, sprint, deserto) è stata la prima cartolina che il Giro 2018 ha spedito al mondo: tutto troppo bello e perfetto per essere vero, però anche un potente messaggio di normalità lasciato in eredità dalla corsa rosa al Paese.
Ha vinto Chris Froome (voto 10 al netto del salbutamolo) e alzi la mano chi sarebbe stato capace di predirlo dopo la caduta di Gerusalemme nella ricognizione della cronometro, il volo sul bagnato di Mercogliano, i secondi persi a Osimo (voto 11, pura essenza del Giro: spettacolare arrivo nel centro storico in festa, un privilegio che la macchina monstre del Tour de France può concedersi sempre più di rado), quando l’alieno viaggiava in pancia al gruppo bianco in volto come uno spettro. Solo la più grande follia della sua carriera, quegli 80,2 km di fuga solitaria alla Coppi tra Colle delle Finestre e Jafferau, gli ha permesso di riprendere per i capelli un Giro che pareva destinato a Simon Yates (voto 8: all’attivo dell’inglese rimangono tre tappe conquistate e 13 giorni in rosa) o a Tom Dumoulin (voto 9), l’arancia meccanica arrivata al traguardo — spremuta — con 46” di troppo di ritardo. In cima a 3562,9 km, uno starnuto.
Per ventuno tappe lunghe quasi un mese, sbarcato in Sicilia (voto 10 alla pasta con le sarde di Caltagirone e alle mandorle di Santa Ninfa) e poi itinerante per 13 regioni seguendo la stella polare del Nord, il Giro è stata l’unica
certezza degli italiani nella precarietà di un governo perennemente nascituro in un coro tragico di voci, un faro capace di emettere luce bianca (Miguel Angel Lopez, terzo, voto 8 con la complicità del crollo di Pinot), ciclamino (Elia Viviani, voto 8: il poker di sprint non compensa la penuria di avversari e l’aver ceduto a Bennett la volata più ghiotta, quella ai Fori Imperiali) e rosa, un punto di riferimento capace di non annoiare mai (ottimi gli ascolti Rai), un’inesauribile miniera di pepite.
I giovani dell’androni, per esempio, con il naso in ognuna delle fughe che hanno spettinato quotidianamente il Giro (voto 9 a Marco Frapporti, 640 km totali inseguito dal gruppo senza, ahilui, mai arrivare in fondo); dinosauro Pozzovivo (voto 9), corridore antico e prezioso, sul podio fino alla terzultima tappa prima di andare in pezzi sotto gli urti del ciclismo fast and furious di Froome; Richard Carapaz (voto 7,5), classe ‘93, primo vincitore di tappa ecuadoriano (Montevergine), quarto in classifica e prospetto (scalatore genere succhiaruote) interessante.
Etna (dal versante più duro), Gran Sasso, Zoncolan (da Ovaro, il peggio che esista per un ciclista), Finestre, Jafferau, Cervinia. Se fumava il motore dell’auto Corriere, immaginatevi le gambe dei corridori. È stato un Giro ruvido, erto (8 arrivi in montagna), sfinente per chi l’ha corso e chi l’ha seguito. Che ha lasciato per strada vittime eccellenti. Una su tutte Fabio Aru (voto 4 di incoraggiamento), zavorrato da una preparazione sbagliata, imploso quasi subito mantenendo un sorriso di facciata per le telecamere e ogni giorno che passava sempre più chiuso in se stesso. Un ritiro doloroso, senza una vera spiegazione (malattia? Virus?) né un’ammissione di responsabilità.
Il lungo viaggio è finito a Roma, con una tappa piena di polemiche e sampietrini (scoprirlo ieri ha del paradossale) che il Giro, questo Giro, non meritava. Ma se ricominciasse domani, saremmo i primi al via.