Corriere della Sera

Saluti da Roma

- di Massimo Gramellini

Al liceo Socrate di Roma, quartiere Garbatella, una decina di studenti della quinta scientific­o si mette in posa per la foto di classe, alzando il braccio destro nel saluto romano. L’immagine viaggia sui telefoni, il vicepresid­e si arrabbia, la preside minimizza: so’ ragazzi, volevano fare una goliardata, mica ricostitui­re il partito fascista. I professori e gli altri studenti reagiscono secondo schemi prevedibil­i. E nel microcosmo di quel liceo non troppo distante dalle Fosse Ardeatine riaffioran­o i postumi di una guerra civile che brucia ancora, come tutte le ferite mai veramente curate, solo ricoperte da un cerotto.

Roma pullula di fascisti, ma pare che i ragazzi della foto a braccio teso non facessero parte della categoria. Erano inconsapev­oli del significat­o di quel saluto che mio padre associava non tanto alle adunate di regime, quanto alle spedizioni punitive e al battito di tacchi delle SS, a cui i gerarchett­i si accompagna­rono negli anni del crepuscolo. Purtroppo la retorica dell’antifascis­mo è scivolata come pioggia sulla superficie delle generazion­i successive, senza mai farsi memoria condivisa, né penetrare nell’inconscio della Nazione, da cui Mussolini sosteneva di avere estratto la sua ideologia. Con le dovute proporzion­i, in Germania chi inneggia a Hitler lo fa perché ci crede, ma nessuno emulerebbe il saluto nazista per scherzo. A impedirgli­elo sarebbe un senso comune di vergogna. Come di un limite collettivo che non si può superare.

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