Saluti da Roma
Al liceo Socrate di Roma, quartiere Garbatella, una decina di studenti della quinta scientifico si mette in posa per la foto di classe, alzando il braccio destro nel saluto romano. L’immagine viaggia sui telefoni, il vicepreside si arrabbia, la preside minimizza: so’ ragazzi, volevano fare una goliardata, mica ricostituire il partito fascista. I professori e gli altri studenti reagiscono secondo schemi prevedibili. E nel microcosmo di quel liceo non troppo distante dalle Fosse Ardeatine riaffiorano i postumi di una guerra civile che brucia ancora, come tutte le ferite mai veramente curate, solo ricoperte da un cerotto.
Roma pullula di fascisti, ma pare che i ragazzi della foto a braccio teso non facessero parte della categoria. Erano inconsapevoli del significato di quel saluto che mio padre associava non tanto alle adunate di regime, quanto alle spedizioni punitive e al battito di tacchi delle SS, a cui i gerarchetti si accompagnarono negli anni del crepuscolo. Purtroppo la retorica dell’antifascismo è scivolata come pioggia sulla superficie delle generazioni successive, senza mai farsi memoria condivisa, né penetrare nell’inconscio della Nazione, da cui Mussolini sosteneva di avere estratto la sua ideologia. Con le dovute proporzioni, in Germania chi inneggia a Hitler lo fa perché ci crede, ma nessuno emulerebbe il saluto nazista per scherzo. A impedirglielo sarebbe un senso comune di vergogna. Come di un limite collettivo che non si può superare.