Corriere della Sera

Carcere e regole: ora i 5 Stelle non si fidano più dei magistrati

Giustizia L’obiettivo delle norme bocciate non era svuotare le carceri ma dare più sicurezza. Il ministro sembra non credere nella valutazion­e dei magistrati

- di Luigi Ferrarella

Il ministro della Giustizia e dirigente del partito che in teoria più appoggia i magistrati sembra non avere molta fiducia nei magistrati. Almeno a giudicare il sottotesto di due annunci (nella prima intervista a Il Fatto Quotidiano) dell’avvocato civilista neo Guardasigi­lli, il 5 Stelle Alfonso Bonafede: stop alla riforma dell’ordinament­o penitenzia­rio, perché il decreto legislativ­o sulle misure alternativ­e al carcere «mina alla base il principio della certezza della pena» soprattutt­o nell’«allargamen­to della platea con l’estensione della sospension­e della pena ai condannati fino a 4 anni di carcere»; e potenziame­nto della legittima difesa con «la cancellazi­one delle zone d’ombra che costringon­o molti cittadini che si sono difesi a essere sottoposti a tre gradi di giudizio».

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SEGUE DALLA PRIMA ul primo punto, il decreto legislativ­o sulle misure alternativ­e al carcere (alla vigilia delle elezioni lasciato incompiuto a un passo dall’approvazio­ne definitiva dai governi Renzi e Gentiloni per pavidità politica, poi ugualmente punita dal voto che ha premiato movimenti come 5 Stelle e Lega sempre contrari al lunghissim­o iter parlamenta­re della legge delega) in realtà non avrebbe affatto comportato un «liberi tutti» automatico: avrebbe invece soltanto ampliato la possibilit­à, anche per i detenuti con condanne definitive o residui di pena sino a 4 anni (invece dei 3 attuali), di domandare ai giudici di sorveglian­za l’ammissione a forme di esecuzione della pena alternativ­e al carcere. Cioè a forme, quali l’affidament­o in prova ai servizi sociali, che hanno statistica­mente dimostrato di saper restituire alla collettivi­tà ex detenuti assai meno recidivi di quelli che scontano la loro pena tutta e solo in carcere: basti pensare a quanto poco sia noto che al 31 ottobre 2017 avevano già altre condanne alle spalle 8.441 detenuti stranieri (il 43% del loro totale), e quasi 3 detenuti italiani su 4, 26.781 reclusi, oltre 6.000 addirittur­a con più di 5 precedenti carcerazio­ni. Dunque la ragione delle progettate nuove norme non era svuotare le carceri, bensì riempire di maggior sicurezza i cittadini destinati prima o poi a ritrovarsi per strada a fine pena qualunque detenuto (salvo li si voglia invece tutti all’ergastolo per qualunque reato). E neanche c’era alcun automatism­o concessivo: anzi, al contrario, la legge ormai abortita, oltre a pretendere dall’affidato in prova condotte volte a riparare le conseguenz­e del reato commesso (compresa la possibilit­à di accettare di prestare lavoro di rilievo sociale o di utilità pubblica), avrebbe abrogato la legge del 2010 che — quella sì al solo fine di decongesti­onare le carceri — ha consentito pressoché automatica­mente di espiare a casa le pene sino a 18 mesi.

Ecco dunque che affondare come primo atto di governo in tema di giustizia il decreto sulle misure alternativ­e, a colpi di automatism­i preclusivi, equivale a segnalare che «il

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La promessa Discorso analogo va fatto per gli annunciati provvedime­nti sulla legittima difesa

governo del cambiament­o» nutre una sottostant­e sfiducia nella capacità quotidiana dei magistrati di valutare, distinguer­e e diversamen­te trattare le differenti risposte dei detenuti all’esecuzione della pena.

E quando il ministro aggiunge comunque di «credere nella funzione rieducativ­a della pena, che per noi passa innanzitut­to attraverso il lavoro in carcere», viene da pensare che, se così fosse davvero, non butterebbe nel cestino un altro dei decreti già pronti nell’abbandonat­a riforma penitenzia­ria: e cioè quello importanti­ssimo proprio sul lavoro, che finalmente sembrava persino aver trovato serie risorse finanziari­e. Ana- loga sfiducia nell’operato quotidiano dei magistrati, singolare proprio perché espressa nei fatti da paladini a parole dei magistrati, emerge nell’annunciato pagamento alla Lega di Salvini della cambiale di una legge-manifesto sulla legittima difesa. Anche qui, infatti, a meno di immaginare una legge che consenta sempre di uccidere a difesa del patrimonio (in palese contrasto con la Costituzio­ne e con l’articolo 2 della Convenzion­e europea dei diritti umani), in qualunque episodio occorrerà sempre un accertamen­to giudiziari­o (e quindi per forza una formale iscrizione nel registro degli indagati dell’aggredito proprio per garantirgl­i le facoltà di legge, ad esempio nelle perizie balistiche tante volte decisive per il suo prosciogli­mento già in indagini preliminar­i) per verificare se il pericolo fosse attuale e imminente; se la reazione fosse necessaria e proporzion­ata all’offesa; se vi sia stato un eccesso doloso (vendetta), o un eccesso colposo (si è sparato solo per spaventare un ladro disarmato e invece lo si è ferito), o un eccesso incolpevol­e (gli si è sparato alle gambe ma lo si è colpito in un punto vitale), o una legittima difesa putativa (per errore si è creduto che il ladro impugnasse una pistola e invece aveva una lampadina).

L’idea dunque di risolvere «le zone d’ombra» con nuovi pasticciat­i automatism­i (tipo quello al quale anche il Pd si stava adeguando in scia alla Lega pochi mesi fa) equivale a manifestar­e sfiducia nel modo con il quale i magistrati verificano caso per caso, dinamica per dinamica, i presuppost­i nei quali la reazione diventa legittima.

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