Quel rovescio non gratta più Ora è diventato un punto di forza
«Tu gratti troppo il rovescio». Non ci sono state promesse, e neppure frasi da scolpire nel marmo. Solo una semplice osservazione tecnica. La collaborazione di coach Simone Vagnozzi con Marco Cecchinato è cominciata così. Molti osservatori avevano da tempo emesso la sentenza. Quel colpo è «marcio». Nel gergo tennistico significa che non cammina, non esce dalla racchetta, è una fragilità troppo esposta. Le favole piacciono sempre a tutti, molto più della realtà. Ma raccontare il Roland Garros del tennista palermitano come un miracolo è forse ingiusto verso il diretto interessato. Cecchinato appartiene alla ristretta cerchia degli sportivi che hanno saputo trasformare i loro punti deboli in punti di forza. Non è un club dove si entra per censo, contano ben altre virtù. Lothar Matthaeus ringrazia ancora oggi Trapattoni quando appena arrivato all’inter gli disse che se voleva fare la differenza doveva imparare a calciare con il sinistro. Un mese fa Lebron James ha reso omaggio a Dwayne Casey, allenatore dei Raptors appena annichiliti. Nel 2011, anno in cui «il prescelto» e i suoi Miami Heat persero da favoriti le Finals contro Dallas, Casey era assistente allenatore degli avversari. «Lui è uno dei motivi per cui sono quel che sono. Aveva pensato a una strategia per farmi fare solo le cose che non ero bravo a fare. Mi fece capire che non ero un giocatore completo». Vagnozzi invece ha fatto capire a Cecchinato che con quel rovescio da antico terraiolo, la testa della racchetta che esce subito verso l’alto per cercare la rotazione, sarebbe rimasto alla periferia del tennis. Devi prendere la palla in anticipo di 30 centimetri. Devi «attraversare lo spazio» del corpo per colpirla, e solo dopo svitare il polso per il top spin. Ecco, detta così sembra facile. Poi ci vogliono centomila colpi provati in allenamento. Ci vuole sacrificio, umiltà, perseveranza. L’altro giorno, Cecchinato ha battuto Djokovic sulla diagonale preferita del campione serbo, quella di rovescio. Non è una favola. Si chiama voglia di lavorare.