Come uccidere un angelo
Torna il commissario Ricciardi di Maurizio de Giovanni. E parla anche d’amore
Confessioni. C’è quella del colpevole e quella del peccatore. Quella di chi ha commesso un crimine e quella di chi ha tradito la fiducia di qualcuno. In questo terreno comune a poliziotti e sacerdoti, figure chiamate chi per mestiere e chi per vocazione a raccogliere colpe, mancanze e errori altrui, lo scrittore Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha messo le basi del nuovo libro, Il purgatorio dell’angelo (Einaudi Stile libero), romanzo con delitto della serie ambientata nella Napoli degli anni Trenta del Novecento con il commissario Luigi Alfredo Ricciardi.
Il titolo suona stonato, perché rimanda al luogo che accoglie chi nell’aldilà ha qualcosa da espiare e lo mette in relazione con un’entità soprannaturale che per definizione dovrebbe risiedere più su, in paradiso. Al riguardo però Ricciardi la pensa in maniera diversa: «Era indifferente all’idea dell’esistenza di un paradiso, di un purgatorio o di un inferno». Il titolo gioca anche con il nome del morto, Angelo, un padre gesuita, noto per la sua umiltà, la sua disponibilità, e per essere il confessore della buona società cittadina.
Altri due elementi danno la misura di quanto, in questa indagine, la sfida a cui de Giovanni invita il lettore sia raffinata e stimolante, fatta di rimandi interni tra situazioni in divenire e di dettagli coerenti tra i personaggi. Il primo aspetto è il luogo dove il religioso, la testa fracassata da una grossa pietra, viene ritrovato: a Posillipo su un piccolo promontorio che ben dispone alla pace dell’anima e che invece, in questo caso, offre riposo (eterno) a un corpo. L’altro elemento da rimarcare è la (nota) capacità di Ricciardi di vedere i morti (quelli uccisi o raggiunti da morte violenta) e di sentire le loro ultime parole, nel caso di padre Angelo: «Io confesso, ti confesso». Frasi aperte con una doppia valenza semantica che non sfugge al commissario: poteva essere l’ammissione da parte del religioso di una colpa commessa o «poteva anche essere un riferimento all’attività principale di padre Angelo, e in tal caso sarebbe stato opportuno condurre la ricerca tra coloro che avevano l’abitudine di svelare le proprie anime nere al gesuita». Ne deriva per il commissario una serie di visite a domicilio in cui Ricciardi raccoglie in pari misura disponibilità e reticenze, sicché l’indagine principale non fa passi avanti; lo stesso accade anche al caso secondario seguito da Ricciardi e affidato al brigadiere Maione: si tratta di diversi furti in pieno centro da parte di ladri fantasma che appaiono e spariscono senza lasciare tracce.
È la fase del racconto in cui, senza allontanarsi dal tema portante, l’attenzione del commissario (e del lettore con lui) è concentrata più sugli affari privati che su quelli pubblici. Complice la primavera e complice l’amore, la novità è che il trentatreenne commissario dagli occhi verdi abbandona per un po’ lo sguardo cupo e la proverbiale riservatezza e si concede perfino qualche battuta di spirito. La sua relazione con la dirimpettaia Enrica è a una svolta, e, ironia della sorte, sarà proprio una «risata omerica e irrefrenabile» del misurato Ricciardi a fare la differenza.
La coerenza della narrazione di cui si diceva fa sì che anche nel privato del protagonista ricorra il tema di partenza: «Quello della confessione era un concetto che riempiva di inquietudine il cuore di Ricciardi». Stavolta peccatori e colpevoli non c’entrano: l’uomo Ricciardi si chiede se debba mettere a parte la donna che ama della sua condizione particolare, di quello che fino ad ora aveva chiamato freddamente «il Fatto» e che ora invece diventa in maniera più empatica «una partecipazione intima alla sofferenza altrui». Un dilemma che Ricciardi si porta fino alle ultime, ultimissime pagine. Per allora, come prevedibile, la storia principale e quella secondaria avranno trovato entrambe soluzione, in maniera imprevedibile, convergendo pure loro verso il tema cardine della confessione.
La storia si svolge a maggio con lo scirocco che soffia sale e sabbia, e rende rosso il cielo. È il mese delle rose. A un certo punto de Giovanni sospende il racconto e segue il destino di un fiore. È una rosa che passa di mano in mano, un fiore che insegue la vita, sfiora anche la mano di Ricciardi; dietro ogni mano c’è una persona e c’è una storia talvolta felice, talvolta triste che lo scrittore tratteggia con brevi e rapidi accenni. Maurizio de Giovanni, qui e altrove nei romanzi e nelle serie narrative, prova con caparbietà a raccontare tante storie, a inseguire molte vite. Come fa la rosa.
Doppio significato
La sfida parte dalla duplice valenza semantica delle ultime parole del religioso: «Io confesso, ti confesso»
Il fiore di maggio
Per un attimo il racconto si sospende per seguire una rosa: dietro ogni mano che la tiene, c’è una storia