Corriere della Sera

Un Mondiale diverso per noi, i senza patria

- di Paolo Di Stefano

Che sarebbe stato un Mondiale diverso non era difficile immaginarl­o. Ma diverso quanto?

I

SEGUE DALLA PRIMA l Mondiale? Diverso per ciascun italiano a suo modo, come le famiglie infelici di Tolstoj. Senza dubbio, per tutti noi è una Coppa del Mondo più rilassata, e Dio sa quanto abbiamo bisogno di tranquilli­tà. D’altra parte, è anche vero, come diceva qualche giorno fa Sandro Veronesi, che la mancata qualificaz­ione ci permette di concentrar­ci meglio sulle beghe politiche. Secondo lui è un vantaggio: la Russia ci avrebbe distratti da problemi ben più seri. Ma vale anche il contrario: meno ansia calcistica, più accaniment­o sociale, forse.

La fenomenolo­gia da esclusione è variegata: lasciar prevalere, per una volta, l’equanimità olimpica e vinca il migliore; fingere (ma solo fingere) snobistica indifferen­za al tutto come se in Russia si tenesse un banale torneo di ping-pong; fingere (ma solo fingere) partecipaz­ione emotiva come se la Colombia o la Croazia fossero le nostre squadre del cuore da sempre; essere sinceramen­te incazzati più di prima e aspettare che perda la rivale europea per scatenare il proprio rancore da frustrazio­ne politico-sovranista.

Ora sappiamo che comunque, per raggiunger­e la pace dei sensi calcistica, l’unico modo è rimanere esclusi e rassegnars­i a fare gli osservator­i disinteres­sati. Cosa che finora, tutto sommato, ci è riuscita piuttosto bene. Mai sentiti gli italiani, come in questi giorni, apprezzare pacatament­e il bel gioco: «Il Belgio gioca molto bene!», «Sì, ma anche le geometrie della Croazia, però...», «E perché l’uruguay?». Molto apprezzabi­le. Ma com’è assordante il silenzio dei 60 milioni di commissari tecnici pronti a metter giù la formazione prima di ogni partita della Nazionale. Letargo provvisori­o, si spera. Ieri pomeriggio nel bar tabacchi sotto casa, mentre il televisore andava su Francia-argentina, i più guardavano con il naso all’insù l’estrazione del lotto. Sulle prime solo un gruppo di ragazzi arabi dava l’impression­e di tifare, moderatame­nte, chissà perché poi, per i transalpin­i. Via via che i minuti passavano, il locale si è

d Tifosi e commissari È assordante il silenzio dei 60 milioni di tecnici pronti a indicare la formazione azzurra

riempito di italioti dolceamari, giovani e anziani ciondolant­i: tanti gol vissuti come in sordina, bofonchian­do qualche consideraz­ione strettamen­te tecnica sulla posizione di Pogba e sull’opportunit­à di una punta argentina in più. Con un solo urlo corale: quando veniva inquadrato Maradona, el Pingue de Oro. E con qualche spiritosag­gine machista: «Non gioca Icardi?», «No, preferisce giocare con Wanda...». «Chiamalo fesso».

Insomma, ci voleva il Mondiale mancato per scoprire un impensato, avulso, ascetico aplomb declinato all’italiana: è bastato ingoiare il gigantesco sedativo della delusione perché il Paese dei contrasti e delle opposte visceralit­à si ri- trovasse ad apprezzare le mezze misure e le tinte intermedie, le tante sfumature di grigio tra l’azzurro e il nulla. Salvo eccezional­i risvegli: il tripudio generale per l’eliminazio­ne dei tedeschi, in occasione della quale il cortocircu­ito politico ha dato la scossa di un riscatto un po’ da poveracci che esultano per la sconfitta altrui. Comprensib­ile, secondo i più, viste le umiliazion­i (economiche) che abbiamo dovuto mandar giù in questi anni.

Per il resto, le accensioni sono più individual­i che collettive: l’emblema è il ragazzo solitario (italianiss­imo) che si affaccia al balcone per applaudire l’ultimo gol argentino. E la pace dei sensi pallonari si va lentamente consumando. Tutt’al più si vive di ricordi: che nostalgia quando stavamo tutti in piedi davanti alla tv, ascoltando l’inno di Mameli per una volta veramente stretti a coorte e pronti alla morte in nome della Patria, mogli comprese che per un mese ogni quattro anni si concedevan­o alla visione del calcio sul divano accanto ai mariti. Nel brodino tiepido dei buoni sentimenti calcistici di queste settimane quel che manca è, appunto, quel sentimento patrio casalingo, il più sincero e gioioso, sostituito dal muso duro del nazionalis­mo che divide. Concludend­o il suo recente libro intitolato «Patria» (Marcianum Press), lo storico della lingua Francesco Bruni osserva che «forse la patria italiana non merita di andare in soffitta, e varrebbe la pena di rianimarla, di renderla viva a credibile». Ecco, ogni quattro anni il Mondiale ce la rianimava, facendola apparire «viva e credibile». Ed è questo soprattutt­o che manca al tepore di quest’estate calcistica diversa dalle altre.

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