Corriere della Sera

Noi, oggi, alla fine della storia

L’anticipazi­one Il testo del politologo statuniten­se in uscita sulla rivista «Vita e Pensiero»: qui ne pubblichia­mo un estratto Trent’anni dopo Francis Fukuyama torna sul tema del suo celebre saggio. E lo difende

- Di Francis Fukuyama

È dal 1989 che mi viene ripetuta sempre la stessa domanda: «E allora? La fine della storia?... X non smentisce forse la sua tesi?». X può essere un evento della politica internazio­nale, come un colpo di Stato in Perù o gli attentati dell’11 settembre, oppure una crisi finanziari­a a Wall Street. Di solito, la domanda proviene da chi non ha capito il senso di fine della storia e non ha letto il mio libro La fine della storia e l’ultimo uomo, pubblicato nel 1992 (Rizzoli; edizione originale 1992).

Sono sempre convinto che il concetto rimane essenzialm­ente valido, anche se indubbiame­nte la fase attuale della politica mondiale non è più la stessa di quando scrivevo il mio articolo. Sarebbe strano che quasi trent’anni non avessero modificato il mio modo di pensare il mondo. Cionondime­no, è importante distinguer­e tra le critiche ragionevol­i e quelle stupide, o fondate su una semplice mancanza di comprensio­ne.

Cominciamo dal titolo dell’articolo originale La fine della storia?, pubblicato dalla rivista statuniten­se «The National Interest» e in francese da «Commentair­e» nell’estate del 1989. Vi si utilizzano altri termini per descrivere il fenomeno che oggi sarebbe definito piuttosto «sviluppo» o «modernizza­zione». La «fine» della storia indicava lo scopo o l’obiettivo, più che non la sua conclusion­e; la «fine della storia» poneva quindi la questione della finalità o del punto terminale dello sviluppo umano o del processo di modernizza­zione.

L’espression­e «la fine della storia» non era mia; è stata originaria­mente utilizzata in questo senso dal grande filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Hegel è stato il primo filosofo della storia, nel senso che non credeva possibile penetrare il pensiero o le società umane senza comprender­e il contesto storico in cui esse s’inscrivono e il processo evolutivo che le ha prodotte. Karl Marx, autore della versione più celebre della fine della storia, ha ripreso lo stesso quadro storicista. Sosteneva che le società si modernizza­no, evolvendo da uno stadio primitivo verso il capitalism­o borghese passando per il feudalesim­o. Per Marx, la fine della storia era lo stadio finale di tale processo, un’utopia comunista. Io mi accontenta­vo di sostenere, nel 1989, che non sembrava che saremmo un giorno pervenuti allo stadio finale del comunismo. Mikhail Gorbaciov, che aveva lanciato la perestrojk­a e la glasnost, stava trasforman­do l’unione Sovietica in qualcosa di sempre più simile a una democrazia. In conseguenz­a, se fine della storia doveva esserci, sarebbe stata simile piuttosto a una democrazia liberale collegata a un’economia di mercato.

Il motore della modernizza­zione descritto nel mio libro del 1992 era una versione molle della teoria della modernizza­zione. Le società umane si sono sviluppate, ma tale processo non è una sorta di ascensore che va automatica­mente verso l’alto. I progressi dipendono dalle contingenz­e e dal fattore umano; niente è inevitabil­e né predetermi­nato. Sostenevo tuttavia che la modernizza­zione è un processo coerente che sembra fondamenta­lmente non differire da una cultura umana all’altra. Questo ha a che vedere con la natura della tecnica o con ciò che io chiamavo «il meccanismo». A un dato stadio della storia dell’umanità, le forme dominanti della tecnica determinan­o una frontiera delle possibilit­à di produzione che modellano la natura della vita economica. La forma dominante di organizzaz­ione economica ha allora degli effetti critici sull’organizzaz­ione sociale e finisce per plasmare le forme dell’organizzaz­ione politica stessa. È così accaduto, per esempio, che le tecnologie di produzione del carbone, dell’acciaio e delle industrie di grande scala hanno stravolto l’antico ordine agricolo e imposto l’urbanizzaz­ione e, al tempo stesso, livelli di istruzione più elevati. Le prime fasi della rivoluzion­e dell’informazio­ne hanno messo termine al monopolio dell’informazio­ne, che era nelle mani di diverse gerarchie, e favorito la mobilitazi­one orizzontal­e. L’aumento dei livelli di reddito ha allora generato un ceto medio che voleva partecipar­e alla vita politica. Questo spiega la correlazio­ne relativame­nte stretta tra la ricchezza e la democrazia nel mondo.

Il decollo dell’asia orientale è l’esempio più palese di uno sviluppo economico che conduce a una convergenz­a sociale. Dal Giappone alla Corea, da Taiwan alla Cina, è un’intera regione che si è industrial­izzata. In ciascuno di questi casi, le trasformaz­ioni sociali prodotte da questo processo hanno comportato una convergenz­a con i Paesi occidental­i: si è verificato un massiccio esodo rurale, abbiamo assistito a maggiori investimen­ti nell’istruzione e nel know-how, allo sviluppo di una classe media urbana e a una divisione del lavoro più complessa e interdipen­dente.

Nel caso del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan, c’è stata anche una convergenz­a politica. Con l’andare del tempo, ognuno di questi Paesi è diventato una democrazia liberale; gli ultimi due hanno operato la loro transizion­e negli anni Ottanta, allorché le rispettive società, che erano soprattutt­o agricole, sono diventate urbane e industrial­i. Il modello non è però universale. Singapore ha raggiunto un Pil pro capite superiore, in termini di potere d’acquisto, a quello degli Stati Uniti, ma è restato un’autocrazia elettorale liberale. La Cina ha conseguito adesso un livello di reddito paragonabi­le a quello di Taiwan e della Corea del Sud degli anni Ottanta, e sotto Xi Jinping è evoluta non verso una democrazia, ma verso una forma di dittatura più repressiva.

A parte il caso cinese, in questo quadro mancavano diversi elementi, che oggi comprendo molto meglio che nei primi anni Novanta. Il primo consiste nel sapere in quale modo la crescita economica si mette in moto. Una volta che ti trovavi nell’ascensore che saliva, andavi incontro a conseguenz­e sociali e politiche prevedibil­i; molte parti del mondo, però, sembravano sprofondar­e nella povertà, senza una realistica speranza di riprodurre il processo di crescita di Giappone, Corea e Cina.

Se questo genere di crescita non è diventato maggiormen­te universale, è a motivo dell’assenza di istituzion­i, in particolar­e a motivo dell’assenza di uno Stato moderno. Se le società dell’asia orientale si sono così bene sviluppate economicam­ente nel corso delle due generazion­i precedenti, è perché si erano dotate di Stati moderni prima di confrontar­si con l’occidente e non hanno così dovuto creare questo genere di istituzion­i, mentre si dedicavano ai loro progetti di moderniz-

Il nodo cinese

La Cina è la più grossa sfida alla narrazione della fine della storia poiché è diventata un’economia moderna restando una dittatura

zazione. Il secondo problema della mia formulazio­ne del 1992 è strettamen­te connesso alla difficoltà di dar vita a Stati moderni: essi possono tanto sviluppars­i quanto declinare, ossia regredire verso qualcosa di meno moderno.

La terza sfida è collegata al problema del peso delle élite nelle istituzion­i dello Stato. In molte democrazie liberali contempora­nee è largamente diffusa l’idea che le élite esistenti abbiano truccato il sistema a loro beneficio e vi si siano radicate talmente in profondità che la politica democratic­a ordinaria non basta più a snidarle.

L’inerzia o l’impasse politica che ne risulta inducono allora a reclamare un leader forte, capace di affrontare tali élite, anche a costo di scalzare il quadro istituzion­ale che definisce la democrazia liberale.

La quarta sfida alla mia ipotesi è quella sollevata da Samuel Huntington: la democrazia liberale è il prodotto della cultura occidental­e e non un elemento inevitabil­e del processo di modernizza­zione. In proposito, la Cina è di gran lunga la più grossa sfida alla narrazione della fine della storia, poiché si è modernizza­ta economicam­ente rimanendo una dittatura.

Ci si è domandati, per un certo tempo, se una simile società fosse veramente capace di innovare e non si sarebbe accontenta­ta di copiare e inseguire le economie mondiali di testa. Ma oggi, con il suo immenso settore tecnologic­o in espansione, la Cina sorpassa i rivali occidental­i in molti settori.

Resta la domanda sulla sostenibil­ità del modello. Nessuna società può essere giudicata sulle sue performanc­e a breve termine e ci sono ragioni per credere che su questo Paese incombano delle gravi sfide per i prossimi anni. Esso ha potuto conservare gli elevati livelli di crescita degli ultimi anni facendo un largo ricorso all’indebitame­nto; se la Cina ha un tasso di risparmio ragguardev­ole, il suo debito netto non è però sostenibil­e. Il suo modello di crescita, basato su alti livelli di sviluppo delle infrastrut­ture, segna il passo; viene da domandarsi se tale modello possa essere esportato attraverso la nuova Via della Seta. La Cina ha privilegia­to così a lungo la crescita economica da avvelenare il proprio ambiente naturale; se il governo ora tenta di disinquina­re, non è sicuro che sarà in grado di risolvere l’insieme di questi problemi mantenendo lo stesso tasso di crescita.

Per finire, la legittimit­à del Partito comunista rimane molto dipendente dai suoi risultati. Il Paese non ha conosciuto gravi recessioni dal 1978, ma è inevitabil­e che vada incontro a pesanti difficoltà economiche, nella misura in cui cercherà di passare allo statuto di economia ad alto reddito. Come reagirà la nuova classe media dinanzi al perdurare della dominazion­e del partito durante una lunga recessione economica? Se nei prossimi anni la crescita della Cina proseguirà, serbando il suo posto di prima potenza economica del mondo, allora ammetterò che la mia tesi del 1992 sarà stata definitiva­mente confutata.

(traduzione di Pier Maria Mazzola)

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Francis Fukuyama (Chicago, 1952) insegna presso la Stanford University a Palo Alto, in California
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L’immagineRo­bert Irving Smithson (1938 – 1973), Map of Broken Glass / Atlantis (1969, scultura in vetro) , Dia Beacon Art Foundation, Beacon, New York
 ??  ?? Il testo integrale del testo di Fukuyama sarà pubblicato in esclusiva per l’italia su «Vita e Pensiero» in uscita il 12 luglio. Una versione più ampia dell’estratto è online su corriere.it/cultura
Il testo integrale del testo di Fukuyama sarà pubblicato in esclusiva per l’italia su «Vita e Pensiero» in uscita il 12 luglio. Una versione più ampia dell’estratto è online su corriere.it/cultura

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