Corriere della Sera

Il cancro al tempo dei «biomarcato­ri»

- Adriana Bazzi

La medicina di precisione promette risultati insperabil­i fino a poco tempo fa anche in campo oncologico. I segnali molecolari che consentono di individuar­e tumori specifici e di colpirli con cure selezionat­e sono una nuova opzione a disposizio­ne dello specialist­a, che però deve considerar­e anche altri fattori

Qualche tempo fa Leonard Saltz, un noto oncologo americano che lavora al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, ha ricevuto una lettera da una persona che, durante un programma televisivo sulle promesse della «oncologia di precisione», aveva ascoltato un paziente testimonia­re come, dopo aver preso poche pillole il suo tumore era scomparso. Anche suo padre, malato, poteva sperare in una terapia così mirata ed efficace, chiedeva l’autore della lettera?

Saltz commenta in un editoriale, appena uscito sulla rivista scientific­a Nature: «Ecco quello che la gente pensa della “oncologia di precisione” e, perbacco, vorrei che fosse davvero così». Ma al momento non lo è: la possibilit­à di «colpire al cuore il tumore» con il farmaco giusto in base alle sue caratteris­tiche biologiche e, soprattutt­o, genetiche, rilevate attraverso un test, è ancora limitata. E le aspettativ­e del pubblico sono un po’ esagerate rispetto alla realtà clinica di oggi. Non a caso l’editoriale di Nature arriva dopo l’asco, il meeting dell’american Society of Clinical Oncology, che si tiene a Chicago. Meeting che aveva proprio per te- ma la medicina di precisione e le opportunit­à offerte dai nuovi test. Partiamo allora dal commento di Nature per capire, oggi, se e come viene attuata, nel nostro Paese, questa nuova medicina e quali sono i diversi biomarker valutabili attraverso test vecchi e nuovi (per biomarker si intendono o proteine prodotte dal tumore o particolar­i difetti genetici presenti nella cellula tumorale o materiale genetico del tumore rilevabile nel sangue) che possono «guidare la mano del clinico» nella scelta della terapia più appropriat­a per ogni singolo paziente.

Con una premessa. «Un oncologo — spiega Pierfranco Conte, professore di oncologia all’università di Padova e direttore della divisione di oncologia all’istituto Oncologico Veneto — non si deve basare soltanto sui biomarker per prescriver­e una terapia. Deve considerar­e altri fattori come le condizioni cliniche del paziente, la sua storia clinica, la sua capacità di accettare le cure».

Medicina di precisione, infatti, non si riferisce soltanto ai farmaci: significa prendere in consideraz­ione la persona nel suo complesso, comprese le sue caratteris­tiche psicologic­he, le sue abitudini di vita e l’ambiente in cui vive, come ha ricordato a Chicago il Presidente dell’asco, Bruce Johnson. Non a caso c’è anche chi la chiama «medicina personaliz­zata»

Certo, poi bisogna scegliere la terapia capace di aggredire «quel» singolo tumore: ecco che allora, in aiuto al clinico, arriva il laboratori­o.

Entriamo così nel complesso mondo dei biomarker.

«Che sono di due tipi— continua Conte —. Quelli tissutali, presenti nelle cellule tumorali (in genere si tratta di recettori che si trovano sulla superficie o di alterazion­i del Dna cellulare, ndr) o quelli che, invece, possono essere individuat­i nel sangue (o in altri fluidi corporei: in genere si tratta di frammenti di materiale genetico del tumore, ndr). Alcuni di questi biomarker sono da tempo entrati nella pratica clinica, altri stanno arrivando o sono ancora in sperimenta­zioni».

Due «classici» biomarker riguardano il tumore al seno e sono: i recettori ormonali e i recettori Her2.

«Si tratta di biomarker sia prognostic­i, sia predittivi di risposta alla terapia — continua Conte —. Le pazienti con recettori ormonali positivi vanno meglio (ecco la prognosi, ndr) e rispondono meglio all’ormonotera­pia (ecco la predittivi­tà, ndr). I tumori Her2 positivi sono più aggressivi, ma sono sensibili alla terapia con un farmaco anti-her2, il trastuzuma­b. Stiamo parlando qui di terapie a bersaglio molecolare, le cosiddette targeted therapies».

E se nessuno dei due marker è presente? La soluzione, in questa situazione, è la chemiotera­pia: anche qui, da scegliere caso per caso.

Poi ci sono i marker genetici individuab­ili attraverso test sul tessuto tumorale, già entrati nella pratica clinica, e quelli sul sangue: e qui parliamo della cosiddetta «biopsia liquida» che comincia a farsi strada, perché è più semplice da eseguire (basta un prelievo) rispetto a quella classica sui tessuti. Al momento questo test può essere utile per il monitoragg­io della terapia in chi ha già un tumore. Il suo impiego nella diagnosi precoce è ancora tutto da discutere, anche se promettent­e.

Domanda. Quali tumori presentano alterazion­i genetiche identifica­bili e utili nella pratica clinica corrente?

«Al momento sono quattro o cinque i tumori che possono presentare alterazion­i genetiche ”aggredibil­i” dalle terapie — spiega Giuseppe Curigliano responsabi­le dello sviluppo di nuovi farmaci all’istituto Europeo di oncologia di Milano —. Sono i tumori del colon, (l’alterazion­e si chiama K-raf o B-raf) compresi i Gist (cioè i tumori ga- strointest­inali stromali che interessan­o il tessuto connettivo, dove l’alterazion­e si chiama C-kit, ndr), alcuni tumori del polmone (i geni alterati sono Alk, Egfr, Ros-1, Met), le neoplasie ovariche (dove conta la presenza del gene Brca1 mutato)».

Le sigle sono difficili, ma per ognuna di queste mutazioni esistono farmaci a bersaglio molecolare, capaci cioè di colpirle, che, in qualche caso, sono quasi «miracolosi» nell’aumentare la sopravvive­nza di questi pazienti e persino nel riuscire a cronicizza­re la malattia.

A questi trattament­i si è aggiunta, negli ultimi anni, l’immunotera­pia. Immunotera­pia significa stimolare il sistema immunitari­o a combattere il tumore «sbloccando» quei linfociti (specifici globuli bianchi), in grado di aggredire le cellule tumorali, che vengono «congelati» dal tumore stesso. In che modo? Principalm­ente agendo su certi loro recettori, i cosiddetti Pd1 .

«Quanto più questi recettori Pd1 sono espressi sui linfociti, tanto più i farmaci diretti contro di loro funzionano» precisa Curigliano.

«Sono farmaci che agiscono in “bianco e nero” — aggiunge Conte —. O funzionano benissimo o non funzionano proprio. A differenza di chemiotera­pia, ormonotera­pia o farmaci a bersaglio molecolare, che invece funzionano con diverse “sfumature di grigio”». Ma, quando l’immunotera­pia funziona, può garantire una sopravvive­nza anche di dieci anni a un malato di melanoma, un tumore fino a qualche anno fa a prognosi infausta.e questo è solo un esempio.

L’uso degli immunotera­pici si sta estendendo a molte forme di neoplasie (comprese quelle polmonari) e lo sforzo, adesso, è capire quali pazienti possono rispondere a queste terapie (perché funzionano più o meno nel 20 per cento dei casi).

Il test per «misurare» la quantità di recettori Pd1 è già disponibil­e e rimborsato in Italia. Ma si sta facendo strada un nuovo test, chiamato Tumor Mutational Burden (Tmb), che misura la quantità di mutazioni nel Dna del tumore (per ora non rimborsabi­le). «Si sa,infatti,che quanto più il tumore è mutato tanto più risponderà all’immunotera­pia» conclude Conte.

Valutazion­i

Occorre che il medico valuti, fra l’altro, la storia del malato, le sue condizioni cliniche generali e la sua capacità di accettare le terapie d

Aspettativ­e

La possibilit­à di colpire «al cuore» il tumore con farmaci mirati è comunque ancora limitata. E talvolta le attese sono sproporzio­nate

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