Il cancro al tempo dei «biomarcatori»
La medicina di precisione promette risultati insperabili fino a poco tempo fa anche in campo oncologico. I segnali molecolari che consentono di individuare tumori specifici e di colpirli con cure selezionate sono una nuova opzione a disposizione dello specialista, che però deve considerare anche altri fattori
Qualche tempo fa Leonard Saltz, un noto oncologo americano che lavora al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, ha ricevuto una lettera da una persona che, durante un programma televisivo sulle promesse della «oncologia di precisione», aveva ascoltato un paziente testimoniare come, dopo aver preso poche pillole il suo tumore era scomparso. Anche suo padre, malato, poteva sperare in una terapia così mirata ed efficace, chiedeva l’autore della lettera?
Saltz commenta in un editoriale, appena uscito sulla rivista scientifica Nature: «Ecco quello che la gente pensa della “oncologia di precisione” e, perbacco, vorrei che fosse davvero così». Ma al momento non lo è: la possibilità di «colpire al cuore il tumore» con il farmaco giusto in base alle sue caratteristiche biologiche e, soprattutto, genetiche, rilevate attraverso un test, è ancora limitata. E le aspettative del pubblico sono un po’ esagerate rispetto alla realtà clinica di oggi. Non a caso l’editoriale di Nature arriva dopo l’asco, il meeting dell’american Society of Clinical Oncology, che si tiene a Chicago. Meeting che aveva proprio per te- ma la medicina di precisione e le opportunità offerte dai nuovi test. Partiamo allora dal commento di Nature per capire, oggi, se e come viene attuata, nel nostro Paese, questa nuova medicina e quali sono i diversi biomarker valutabili attraverso test vecchi e nuovi (per biomarker si intendono o proteine prodotte dal tumore o particolari difetti genetici presenti nella cellula tumorale o materiale genetico del tumore rilevabile nel sangue) che possono «guidare la mano del clinico» nella scelta della terapia più appropriata per ogni singolo paziente.
Con una premessa. «Un oncologo — spiega Pierfranco Conte, professore di oncologia all’università di Padova e direttore della divisione di oncologia all’istituto Oncologico Veneto — non si deve basare soltanto sui biomarker per prescrivere una terapia. Deve considerare altri fattori come le condizioni cliniche del paziente, la sua storia clinica, la sua capacità di accettare le cure».
Medicina di precisione, infatti, non si riferisce soltanto ai farmaci: significa prendere in considerazione la persona nel suo complesso, comprese le sue caratteristiche psicologiche, le sue abitudini di vita e l’ambiente in cui vive, come ha ricordato a Chicago il Presidente dell’asco, Bruce Johnson. Non a caso c’è anche chi la chiama «medicina personalizzata»
Certo, poi bisogna scegliere la terapia capace di aggredire «quel» singolo tumore: ecco che allora, in aiuto al clinico, arriva il laboratorio.
Entriamo così nel complesso mondo dei biomarker.
«Che sono di due tipi— continua Conte —. Quelli tissutali, presenti nelle cellule tumorali (in genere si tratta di recettori che si trovano sulla superficie o di alterazioni del Dna cellulare, ndr) o quelli che, invece, possono essere individuati nel sangue (o in altri fluidi corporei: in genere si tratta di frammenti di materiale genetico del tumore, ndr). Alcuni di questi biomarker sono da tempo entrati nella pratica clinica, altri stanno arrivando o sono ancora in sperimentazioni».
Due «classici» biomarker riguardano il tumore al seno e sono: i recettori ormonali e i recettori Her2.
«Si tratta di biomarker sia prognostici, sia predittivi di risposta alla terapia — continua Conte —. Le pazienti con recettori ormonali positivi vanno meglio (ecco la prognosi, ndr) e rispondono meglio all’ormonoterapia (ecco la predittività, ndr). I tumori Her2 positivi sono più aggressivi, ma sono sensibili alla terapia con un farmaco anti-her2, il trastuzumab. Stiamo parlando qui di terapie a bersaglio molecolare, le cosiddette targeted therapies».
E se nessuno dei due marker è presente? La soluzione, in questa situazione, è la chemioterapia: anche qui, da scegliere caso per caso.
Poi ci sono i marker genetici individuabili attraverso test sul tessuto tumorale, già entrati nella pratica clinica, e quelli sul sangue: e qui parliamo della cosiddetta «biopsia liquida» che comincia a farsi strada, perché è più semplice da eseguire (basta un prelievo) rispetto a quella classica sui tessuti. Al momento questo test può essere utile per il monitoraggio della terapia in chi ha già un tumore. Il suo impiego nella diagnosi precoce è ancora tutto da discutere, anche se promettente.
Domanda. Quali tumori presentano alterazioni genetiche identificabili e utili nella pratica clinica corrente?
«Al momento sono quattro o cinque i tumori che possono presentare alterazioni genetiche ”aggredibili” dalle terapie — spiega Giuseppe Curigliano responsabile dello sviluppo di nuovi farmaci all’istituto Europeo di oncologia di Milano —. Sono i tumori del colon, (l’alterazione si chiama K-raf o B-raf) compresi i Gist (cioè i tumori ga- strointestinali stromali che interessano il tessuto connettivo, dove l’alterazione si chiama C-kit, ndr), alcuni tumori del polmone (i geni alterati sono Alk, Egfr, Ros-1, Met), le neoplasie ovariche (dove conta la presenza del gene Brca1 mutato)».
Le sigle sono difficili, ma per ognuna di queste mutazioni esistono farmaci a bersaglio molecolare, capaci cioè di colpirle, che, in qualche caso, sono quasi «miracolosi» nell’aumentare la sopravvivenza di questi pazienti e persino nel riuscire a cronicizzare la malattia.
A questi trattamenti si è aggiunta, negli ultimi anni, l’immunoterapia. Immunoterapia significa stimolare il sistema immunitario a combattere il tumore «sbloccando» quei linfociti (specifici globuli bianchi), in grado di aggredire le cellule tumorali, che vengono «congelati» dal tumore stesso. In che modo? Principalmente agendo su certi loro recettori, i cosiddetti Pd1 .
«Quanto più questi recettori Pd1 sono espressi sui linfociti, tanto più i farmaci diretti contro di loro funzionano» precisa Curigliano.
«Sono farmaci che agiscono in “bianco e nero” — aggiunge Conte —. O funzionano benissimo o non funzionano proprio. A differenza di chemioterapia, ormonoterapia o farmaci a bersaglio molecolare, che invece funzionano con diverse “sfumature di grigio”». Ma, quando l’immunoterapia funziona, può garantire una sopravvivenza anche di dieci anni a un malato di melanoma, un tumore fino a qualche anno fa a prognosi infausta.e questo è solo un esempio.
L’uso degli immunoterapici si sta estendendo a molte forme di neoplasie (comprese quelle polmonari) e lo sforzo, adesso, è capire quali pazienti possono rispondere a queste terapie (perché funzionano più o meno nel 20 per cento dei casi).
Il test per «misurare» la quantità di recettori Pd1 è già disponibile e rimborsato in Italia. Ma si sta facendo strada un nuovo test, chiamato Tumor Mutational Burden (Tmb), che misura la quantità di mutazioni nel Dna del tumore (per ora non rimborsabile). «Si sa,infatti,che quanto più il tumore è mutato tanto più risponderà all’immunoterapia» conclude Conte.
Valutazioni
Occorre che il medico valuti, fra l’altro, la storia del malato, le sue condizioni cliniche generali e la sua capacità di accettare le terapie d
Aspettative
La possibilità di colpire «al cuore» il tumore con farmaci mirati è comunque ancora limitata. E talvolta le attese sono sproporzionate