Ma i test hanno senso se servono davvero
Sgomberiamo subito il campo da una cattiva abitudine che certi medici hanno: prescrivere a un paziente, che ha disturbi vari e vaghi, magari anziano, la ricerca, nel sangue, di certi marker tumorali «classici» come l’alfa-feto proteina, l’antigene carcinoembrionario (Cea) o altre proteine come il CA 125 o il Ca 19-9, tanto per capire se magari c’è un tumore.
Queste proteine, infatti, possono essere spia di un cancro, ma sono aspecifiche, nel senso che aumentano anche in seguito ad altre malattie, soprattutto quelle infiammatorie. Quindi, per una diagnosi precoce, non sono significative e spingono ad approfondimenti diagnostici inutili, disturbanti per il paziente e costosi.
«Questi marker — precisa Giuseppe Curigliano, direttore della Divisione Sviluppo Nuovi Farmaci per Terapie Innovative dell’istituto Europeo di Oncologia di Milano — sono, invece, utili nel monitoraggio della malattia quando un paziente è già in terapia: il Ca125 per esempio, è importante nel tumore all’ovaio, l’alfafeto proteina in quello del fegato e anche in quello del testicolo».
Rimane, però, la domanda: è possibile, attraverso biomarcatori identificabili con un test, individuare il «rischio cancro» in una persona? Un tema complicato che cerchiamo di semplificare.
Ci sono allora due opportunità.
La prima è la possibilità di identificare persone che geneticamente sono predisposte al tumore.
Al momento questo riguarda i famosi «geni Jolie», in sigla Brca1 e Brca2 . La presenza di questi geni nel Dna di una persona (che di solito ha familiarità per tumore) indicano il rischio di andare incontro a neoplasie del seno e dell’ovaio (ma si sta scoprendo che questi geni sono legati anche ad altri tumori come quello della prostata).
Ed è per questo che l’attrice americana Angelina Jolie, portatrice di questi geni, si è sottoposta, prima, a una mastectomia e, poi, all’asportazione delle ovaie.
La seconda è quella di sfruttare i biomarker per diagnosticare la malattia in fase molto precoce e di conseguenza trattarla con vantaggi in termini di sopravvivenza.
E qui il tema del tumore alla prostata la fa da padrone con il test del Psa, l’antigene prostatico specifico, sul sangue.
In un primo tempo la presenza di valori elevati di Psa aveva suggerito un atteggiamento piuttosto aggressivo: l’intervento con rimozione della ghiandola che poteva avere conseguenze di vario tipo, comprese quelle che hanno a che fare con l’attività sessuale. Ora si è più cauti.
«Il Psa non è specifico per un tumore — commenta Gabriella Sozzi, direttore della Struttura Complessa di Genomica Prescrivere a un paziente, che ha disturbi vari e vaghi, magari anziano, la ricerca nel sangue di certi marker tumorali «classici», per capire se c’è un tumore. non serve. Determinate proteine, infatti, aumentano anche in seguito ad altre malattie e quindi, per una diagnosi precoce, non sono significative e possono indurre ad ulteriori analisi diagnostiche inutili e costose Tumorale all’istituto Tumori di Milano —. Può aumentare anche in caso di prostatiti (cioè di infiammazioni della prostata, ndr). Ecco perché ha suscitato tante discussioni. E un atteggiamento meno aggressivo per quanto riguarda gli interventi».
Su questo tema gli specialisti americani sono più attendisti rispetto agli europei perché pensano che il test comporti troppi «falsi positivi»: in altre parole, troppo volte il test indica un rischio di tumore che poi non c’è e optano per un approccio di vigile attesa o di sorveglianza attiva, cioè di monitoraggio della situazione. Ma il tema continua a essere oggetto di discussione. insomma la cosiddetta «medicina basata sull’evidenza» cioè sulle prove scientifiche che dovrebbero certificare la bontà delle terapie e degli interventi, ogni tanto deve rimettersi in gioco. E non sempre quello che era vero ieri, lo è anche oggi.