Lista di volontari per la missione estrema «Se diluvia, pronti a prendere i ragazzi»
In arrivo forti piogge, possibili nuovi allagamenti. I Navy Seals: «Faremo il nostro dovere»
MAE SAI (THAILANDIA) I sommozzatori escono sfiniti. Nel pomeriggio, nell’afa umida, nel bosco di telecamere che incorona le grotte di Tham Luang. Barcollano verso la tenda, levano la muta, bevono integratori. «È la cosa più complicata che abbia mai affrontato», Khao Khieupakdi s’accascia su una sedia. È un esperto di disastri, ha vissuto le grandi paure dello Tsunami del 2004 e del tifone 1989, adesso butta le bombole nell’erba. Svuotato l’ossigeno, fa il pieno di dubbi. I tredici sommersi nella grotta, al tredicesimo giorno non ancora salvati, hanno poche ore di limbo: questo giovedì. Da domani si rischia il diluvio, 33 millimetri in tutto il nord, prevede il meteo, sei volte la pioggia caduta quel giorno che ha sigillato sottoterra la squadra di calcio e il suo allenatore. In cinque giornalisti l’attorniamo: mister Khao, ma se là sotto s’allaga di colpo, voi che fate? La risposta è da soldato: «Il nostro dovere». Ovvero? «C’è un gruppo di Navy Seals Thai fisso nella grotta, a 700 metri dall’ingresso. Sanno cosa li aspetta». Scapperanno? «Se piove, molti si sono offerti volontari per tentare l’impossibile. Andare in fondo al tunnel e tirare fuori i ragazzi, costi quel che costi». Ma in certi punti può passare una persona sola per volta, e senza bombole: è un’impresa suicida… Khao ci fissa con lo sguardo. In silenzio.
È l’ora dei se. Un reticolato d’angosce più fitto dei cunicoli: e se tutto diventa impossibile, e se i genitori chiederanno perché non s’è potuto?... Meglio pensare al subito. In due giorni, l’acqua pompata dalle grotte è scesa di 40 centimetri, dispersa nei campi: i contadini si ritrovano rovinati i raccolti, ma con dignità rifiutano i risarcimenti promessi dal governo. Mezzo tunnel è ormai asciutto, s’avanza fino alla cosiddetta «camera 3», uno slargo nella roccia che permetterebbe ai ragazzi di camminare almeno due chilometri. Il problema è che ne restano altri due allagati, 35 centimetri d’acqua destinati a salire di nuovo, e ai soccorritori ci vogliono comunque undici ore per entrare e poi tornare indietro: le lezioni di scuba continuano, ma nessuno s’aspetta d’insegnare a principianti assoluti come nuotare nel fango e nel buio. Le famiglie dei sepolti vivi iniziano a snervarsi, la mamma di Prajak si chiede perché gli altri genitori abbiano potuto almeno parlare coi figli e lei no («ha solo 14 anni ed è maturo, ma so che soffre questo silenzio!...»): le spiegano che la fibra ottica dei primi collegamenti s’è spezzata, non funziona più. La sensazione però è che in quest’armata del buon cuore si sia rotto anche il filo dei comandi, si vada a caso. I piani sono quattro, e diversissimi: 1) estrarre i baby-calciatori oggi, prima che cominci a piovere; 2) assisterli nella grotta finché durano i monsoni, quattro mesi, perché tirarli fuori ora è troppo pericoloso; 3) insistere nell’addestrarli come sub, perché poi se la cavino immergendosi; 4) trivellare una via d’uscita dall’alto. Gli elicotteri sorvolano di continuo, i dieci chilometri di sotterranei sono in buona parte sconosciuti anche a chi vive qui: perlustrando la montagna, è spuntato un pozzo profondo 70 metri, pieno di pipistrelli. Da sopra, si sente scorrere l’acqua. «Potrebbe essere una soluzione», dicono.
Là sotto, il contegno dei ragazzi fa da esempio. I medici temevano panico, claustrofobia, confusione, ora dicono alla Cnn che sono troppo deboli perché possano muoversi. Eppure le immagini del sottosuolo ci rimandano volti sorridenti, calmi, ottimisti: grazia sotto pressione, definirebbe il loro coraggio un Hemingway. Anche il cantiere globale del soccorso non si perde d’animo e applaude ogni pompiere, accoglie le autorità, prepara i kit di sopravvivenza da qui a ottobre, quanto dureranno le piogge: pretzel, waffle, proteine, tutta roba che viene dal Kansas che hanno portato i marines di stanza nel Pacifico. «È il potere dell’unità, dell’amore e della buona volontà», dice in un messaggio Sua Maestà Maha Vajiralongkorn Bodindradebayavarangkun, più facilmente re Rama X: timidamente, perché in Thailandia queste son cose delicate, qualche commentatore si chiede come mai l’altezza Reale non sia salita a questo confine con la Birmania, in sintonia con sudditi davvero in ansia. Perfino la nazionale di calcio giapponese ha mandato un tweet: «Tenete duro!». E che dire di Kruba Boonchum in persona, il più riverito dei monaci thai? Compare dal nulla verso sera, non proferisce verbo, aggira qualche maialino brado e va a pregare coi genitori dei ragazzi. Non è venuto a fare passerella: la zona di Than Luang, la chiamano anche la Grotta della Principessa per la leggenda di Sip Song Panna, una giovane nobile che s’innamorò d’un villico, rimase incinta e si suicidò quando il re padre, furioso, le ammazzò il figlio della colpa. Il monaco è considerato la reincarnazione di quell’amante plebeo. E le piogge che inondano questa grotta, c’indica un collega di Bangkok al tramonto, altro non sono che le lacrime della Principessa: «Se guardi la montagna, il profilo è d’una donna sdraiata, dai capelli lunghi…». La guardiamo. Che basti Kruba, a non farla piangere questo venerdì?
Khao, l’esperto di disastri Sanno cosa li aspetta. Molti si sono detti disposti a sfidare l’impossibile per salvarli